Famiglia
Dalla campanella alle file di banchi: le sei pratiche inerziali di cui la scuola si deve liberare
La scuola ha un problema metodologico, che nessuna riforma ha mai messo a tema. Passare dalla scuola del controllo alla scuola dell’apprendimento implica innanzitutto liberarsi di alcune pratiche, che pure si perpetuano senza fondamento didattico. E poi? Ecco i sei punti del Manifesto per la "scuola che verrà" di Daniele Novara
Dalla scuola del controllo alla scuola dell’apprendimento, dalla scuola impostata per obiettivi-contenuto-verifica, incentrata sul docente, che parte dal programma, che legittima la lezione frontale alla scuola dell’apprendimento, che parte dal punto in cui ogni alunno si trova, che va avanti per laboratori, che valuta non il risultato ma il progresso fatto. È questo il sogno di scuola che Daniele Novara e l’equipe del Centro Psico Pedagogico di Piacenza hanno condiviso sabato con i mille insegnanti ed educatori che sabato hanno affollato il Teatro Carcano di Milano nel convegno "La lezione non serve. La scuola come comunità di apprendimento". Una scuola che nascerà da un Manifesto in sei punti, che vanno a toccare ciò che nessuna delle tante riforme della scuola ha mai sfiorato, il tema metodologico, il come organizzare i processi di apprendimento.
Manifesto della scuola che verrà
- Si impara dai compagni. Anche il copiare allora è un processo di imitazione che permette di apprendere. La scuola ha bisogno di un clima osmotico, la gita ad esempio va fatta a inizio anno per costruire il clima, non a fine anno come premio.
- Si impara con le domande. Non quelle che cercano la risposta esatta, ma quelle maieutiche che attivano la voglia di scoprire
- Si impara nel laboratorio. L’alternativa alla lezione frontale è il laboratorio.
- Si impara sbagliando. Serve una valutazione evolutiva, che tenga conto del punto di partenza e dei progressi fatti. Si impara valutando i progressi fatti, non gli errori.
- Si impara con l’insegnante che fa da regista. Non sono gli insegnanti che devono parlare, gli insegnanti devono far lavorare i ragazzi.
- Si impara divertendosi. Se la didattica è creativa, sorprende e accompagna alla scoperta. Ai ragazzi non possiamo fare sempre la richiesta “ascoltate”, la richiesta giusta è “muovetevi, siate attivi”.
Per cambiare però, Novara ne è convinto, bisogna iniziare dal togliere. Con la sua consueta verve così ha consegnato alla riflessione degli insegnanti un elenco di pratiche didattiche inerziali, pratiche cioè «che nella scuola si ripetono senza reali motivazioni pedagogiche o di organizzazione dei processi dell’apprendimento, senza intenzionalità metodologica, che sono comparse senza che si sappia chi le abbia introdotto e perché e che continuano a vivere all’infinito solo perché “si è sempre fatto così”». Eccole.
Le pratiche inerziali
- La lezione. «C’è un giallo nella scuola italiana, nei documenti ministeriali la parola lezione non c’è mai, eppure a scuola si fa lezione e le maestre per essere assunte sono chiamate a simulare una lezione. Com’è? Com’è che la lezione è entrata nella scuola se nessuno ha mai detto che ci deve essere nella scuola? Per certe cose non c’è risposta». Non è l’unica.
- La nota.
- La campanella, «per cui tu sei nel pieno del lavoro, hai preparato, avviato, sei al clou e… suona la campanella. Non ha senso. Cosa ha a che fare con l’apprendimento? Dobbiamo costruire il tempo sul lavoro, non sulla campanella».
- Il cortile piatto: «ma se devono giocare, il “piatto” è il dispositivo peggiore, perché nel piatto il gioco è monocorde, non puoi nemmeno nasconderti, il cortile piatto serve per controllare i bambini, non per farli giocare, mancano solo le torrette di avvistamento».
- Quinto, che è anche peggio, l’intervallo nei banchi, «per la paura che i bambini si facciano male correndo».
- Sesto, la disposizione nei banchi: «se è vero che l’ambiente attiva apprendimento, qui l’apprendimento lo attiva la bidella il pomeriggio, che sistematicamente rimette in fila i banchi. È incredibile che l’insegnante non possa disporre dello spazio in funzione dell’apprendimento».
«Nella scuola del controllo ci sono obiettivi e competenza da raggiungere, un impianto stratosferico di obiettivi di apprendimento che diventa il framework entro cui inserire le attività. Hai un obiettivo e organizzi le attività di conseguenza, come in azienda, con una logica aziendalistica, produttiva, di stimolo e risposta. La scuola dagli anni ‘90 è costruita così, buttando a mare l’attivismo pedagogico dei decenni precedenti. In questo framework lo strumento più efficace è la lezione frontale, che sia fatta in carne ed ossa o che sia una video lezione. Dobbiamo sostituire la scuola del controllo con scuola dell’apprendimento, dove c’è centralità degli alunni e del gruppo classe, protagonismo alunni, processi scambio e di imitazione. Si parte non dal programma ma dal punto di partenza di ciascuno e la verifica va a vedere ognuno che miglioramenti fa». Gli insegnanti hanno spazio per il cambiamento, «non ci sono vincoli imprescindibili se non le pratiche inerziali. Ed c’è speranza se oggi mille insegnanti hanno scelto di essere qui, per cambiare innanzitutto noi stessi».
Nel corso della giornata, Francesco Dell’Oro, pedagogista ha condannato l’assillo per i voti: «preoccupiamoci del benessere, delle relazioni con i compagni, quando il ragazzo sta bene a scuola, lo studente arriva. La scuola è luogo elettivo dell’errore». Milena Santerini, pedagogista dell’Università Cattolica, ha sottolineato che «qualche volta la lezione serve. Non basta mai e guai a farla da sola, però a volte serve e serve – forse incredibilmente – quando ci sono alunni con più svantaggio iniziale, perché è necessario esplicitare dei contenuti prima di creare autonomia di apprendimento. La pedagogia, citando don Milani, ci dice in fondo una cosa sola, che i ragazzi sono tutti diversi».
La psicologa Silvia Vegetti Finzi ha ricordato invece che «il buon insegnante conosce se stesso» e «ricorda di essere stato bambino», insistendo sul tema delle risorse poiché «il vero problema degli adolescenti di oggi è che gettano la spugna, che si tirano fuori dal gioco della vita, è la generazione né né, una deriva da combattere rafforzando le loro risorse» e questo si fa narrandosi, perché «noi non siamo solo ciò che abbiamo fatto ma la narrazione di noi stessi, la spola che va avanti e indietro per narrarci. Quando uno racconta di sé attiva negli altri i ricordi della propria vita, i ricordi sono come le ciliegie. Se noi ce la siamo cavata, anche i nostri ragazzi se la caveranno». Bruno Tognolini, scrittore e poeta, ha fatto una «relazione di minoranza, in difesa dell’adulto che parla davanti agli uomini», delle maestre come narratrici, perché «i bambini sono incantabili sempre». Alberto Oliverio ha ribadito l’importanza del fare pratiche motorie, sensoriali, basate sull’esplorazione, sulla motricità come fondamentale dello sviluppo della mente infantile, mentre Anna Oliverio Ferraris ha messo l’accento sul fatto che a scuola non si va solo per imparare ma anche per stare con i compagni, per apprendere quell’intelligenza sociale che servirà per tutta la vita: scuola quindi «come luogo dove si hanno buone relazioni, ci si sente accolti, un luogo significativo, il contrario di un non-luogo che è spazio di passaggio da attraversare in fretta, come clienti. Gli alunni invece spesso a scuola si sentono trattati in modo anonimo».
Il convegno può essere ripercorso seguendo l'hashtag #LaLezioneNonServe.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.