Cultura

Giuliano Amato, a sorpresa. Prendete l’Europa

L'ex presidente del consiglio fa un'apertura di credito a 360 gradi alla società civile. "Sono diventato un sostenitore del movimento".

di Barbara Fabiani

Mai come in questi ultimi mesi di drammatiche vicende internazionali ci si è chiesti: ma a che serve l’Europa? Cresce la consapevolezza che il mondo si stia smembrando tra pochi ambienti ricchi e i molti depauperati; eppure proprio i paesi poveri guardano all’Europa come modello di governo che sappia coniugare democrazia, giustizia sociale e solidarietà. è solo l’effetto di una buona propaganda di facciata? A presentare un’idea di Europa è la sola società civile che cerca un dialogo costante con la Convenzione. «Si è aperta una vera e propria fase costituente che si concluderà nelle elezioni del 2004», mette in risalto l’importanza di questa fase storica Edo Patriarca, portavoce del Forum del Terzo settore. «Un fatto che sollecita il protagonismo di tutte le istituzioni europee, regionali e locali, ma anche delle tante forze vive, culturali e civili del nostro continente». Per questo si è svolto la scorsa settimana un incontro tra società civile italiana, rappresentata dalla tre reti della Tavola delle Pace, Forum del Terzo settore e Associazione delle ong, con il vicepresidente della Convenzione, Giuliano Amato. Quella che segue è una sintesi del suo intervento. Il Forum del Terzo settore ha elaborato un documento sulla Convenzione, consultabile sul sito Sito Forum Terzo Settore Da qualche tempo è cresciuta l’aspettativa per un’Europa la cui politica estera non trovi il culmine nei militari mandati a fare operazioni di peacekeeping, ma in interventi che pongano mano agli equilibri fondamentali di cui il mondo ha bisogno: riequilibri tra rispetto e violazione dei diritti fondamentali, tra ricchi e poveri. Questa prospettiva ha portato a cercare rapporti con chi aveva già cominciato a fare questo percorso: la società civile. Con il movimento Da alcuni anni ha prevalso l’aspettativa sbagliata che con il diffondersi di un’economia libera, non più ostacolata dalle barriere del comunismo, questa sarebbe stata capace di generare un benessere diffuso in chiave di vasi comunicanti. Questa convinzione non è ancora venuta meno. Non mi considero tra i nemici dell’economia di mercato, d’altra parte so perfettamente di quali canali c’è bisogno perché i vasi comunicanti non operino alla rovescia. L’economia di mercato è un ottimo strumento di interdipendenza tra sistemi economici. Non ci sono dubbi che questa sia una piattaforma positiva; sarebbe assurdo pensare che, chiudendosi all’economia internazionale, si possa produrre autarticamente sviluppo. Tuttavia, questi canali continuano a pompare acqua da dove ce n’è poca, portandola dove ce n’è tanta, anziché operare nel senso inverso. Il grande problema del mondo di oggi è proprio questo: i buoni sentimenti che animano la Convenzione, e anche una buona parte dell’establishment, volti a raggiungere obiettivi di giustizia, purtroppo ancora non hanno fatto i conti con questa realtà che separa i buoni sentimenti dagli obiettivi. Per questo sono diventato uno dei sostenitori del cosiddetto “movimento”: il movimento è costituito prevalentemente non da scalmanati, ma da associazioni e ong che vivono in concreto esperienze nei paesi dai quali l’acqua viene pompata e quindi sono coloro che hanno più netta la percezione di quale sia l’inversione di rotta necessaria. Quando discuto di queste temi, mi capita di constatare una profonda identità di vedute con la società civile più che con altri. E capisco tutta l’importanza che questo soggetto, la società civile appunto, si irrobustisca, abbia voce e sia in grado di contribuire alla definizione delle politiche. Ma guardiamo il mondo che abbiamo davanti. Pensiamo al dilagare delle transnational companies che, attraverso le catene di subappalto, portano nei nostri mercati prodotti realizzati con organizzazioni del lavoro che noi in Europa abbiamo abolito da due secoli. Altro che articolo 18, qui siamo proprio all’articolo zero. Una corsa rovinosa Bisogna allora chiedersi quale sia il Social floor nel mondo, cioè il livello minimo dei diritti, che riteniamo non oltrepassabile. E bisogna affrontare il problema di una politica degli investimenti che non porta nessuna attivazione di sviluppo locale. Gli istituti finanziari prestano denaro alle imprese che investono nei paesi terzi, a condizione che il prodotto sia esclusivamente destinato all’esportazione nei paesi ricchi. La ragione? In questo modo hanno la sicurezza che non ci sia contaminazione con la valuta locale. Noi italiani abbiamo vissuto la questione meridionale e sappiamo cosa abbiano comportato le incursioni produttive che non servono ad alimentare meccanismi di sviluppo locale, ma servono solo a restituire risorse alle parte del paese più ricco, la stessa da cui provenivano i capitali. Dopo aver capito l’errore, abbiamo cominciato, pur con i nostri limiti, a fare politiche di distretto, a far crescere un tessuto di dirigenza locale. Per quanto riguarda il resto del mondo ragioniamo invece ancora in maniera diversa. Ci occupiamo solo della produttività del lavoro messo nelle condizioni di essere il più flessibile possibile? O ci preoccupiamo della produttività delle risorse rispetto ai problemi che dobbiamo risolvere nel mondo? Nella seconda ipotesi ci accorgiamo che la competitività sul piano dei costi è una corsa rovinosa per le parti deboli. Questo non significa che la flessibilità sia un male, ma si tratta di definire un Social floor per l’intero mondo, non abbassarlo in modo che ci si avvicini sempre di più ai paesi che non ce l’hanno affatto. Su questa prospettiva è ancora tutto da costruire. E l’apporto che possono dare i movimenti e le organizzazioni non governative è enorme. Perché mi interessa tanto il movimento? Un ingrediente essenziale di potenziali sistemi democratici è quella che dall’800 in poi chiamiamo “opinione pubblica”. Il “movimento” è un paradosso, perché l’opinione pubblica è un elemento maturo, quasi sofisticato del sistema democratico; nella storia degli stati sono nate prima le istituzioni e poi grazie alle opinioni pubbliche queste sono andate modificandosi. Oggi di istituzioni mondiali non ce ne sono o ce ne sono spezzoni, mentre è molto, più avanti la composizione di un opinione pubblica globale. Piaccia o non piaccia, in questi anni le parole d’ordine per un mondo migliore sono state imposte dalle battaglie dei movimenti e solo così sono finite sul tavolo delle istituzioni. Lo stesso G8 ha fallito nell’entità delle risorse destinate alla lotta alla povertà; ma è stato costretto a passare dalla stabilità delle proprie banche come obiettivo unico, alla lotta contro la povertà come obiettivo poco finanziato. La pressione ora va accentuata per fare emergere che non esiste politica accettabile per i paesi terzi, se non realizza l’empowerment delle persone che vivono in quei paesi e delle loro economie e società. Dovete aiutare a far capire a coloro che si chiudono a riccio che nessuno chiede l’isolazionismo, né lo chiedono i paesi poveri. L’interdipendenza delle economie è un principio che nessun essere ragionevole nega. Quello che si chiede è che l’interdipendenza giochi a scambio e non esclusivamente contro di loro. Meno reticenze C’è poi un problema su cui i movimenti non devono avere reticenze, come ogni tanto è accaduto: è il problema della democrazia locale. Fra l’altro il problema della democrazia locale è una delle ragioni per cui considero essenziali il coinvolgimento delle ong nelle realizzazione dei programmi di intervento, per avviare l’empowerment. Questo è un impianto di intervento di cui il mondo ha bisogno e che ancora non abbiamo. Giuliano Amato Cos’è: convenzione Con la Convenzione europea è iniziata una fase cruciale per un concreto cambiamento delle finalità dell’Europa: dal solo mercato alla politica. Composta da una selezione di rappresentanti politici europei, la Convenzione ha l’incarico di esaminare le questioni centrali per lo sviluppo futuro e poi presentare proposte di nuovi assetti istituzionali a una Conferenza intergovernativa. Info: Sul sito ufficiale della Convenzione Europea a cura di Barbara Fabiani


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