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Onu: la Libia è un Paese senza diritti anche per i libici

Pubblicato il Rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, secondo cui sono migliaia le persone detenute nelle carceri del Paese in modo arbitrario e in condizioni disumane, senza accesso all’assistenza legale. A sollevare forte preoccupazione è inoltre il ruolo chiave attribuito dal governo ai gruppi armati nel Paese

di Ottavia Spaggiari

Persone ridotte in schiavitù e violenze estreme. È un quadro disumano quello dipinto dalle Nazioni Unite nel Rapporto sulla Libia pubblicato martedì scorso. L’ennesima denuncia di una situazione che viola oltre ogni misura i diritti umani e che non può essere tollerata dalla comunità internazionale.

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, torna a parlare di Libia dopo che lo scorso novembre aveva dichiarato in un comunicato durissimo che «la sofferenza dei migranti detenuti nel Paese è un oltraggio alla coscienza dell’umanità», commentando le politiche dell’Unione Europea e dell’Italia a sostegno dei Centri di detenzione in Libia e della Guardia Costiera libica nell’intercettazione e nel respingimento dei migranti nel Mediterraneo.

Questa volta l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Ohchr) punta l’attenzione sulla situazione interna e le condizioni della popolazione civile libica.

«Uomini, donne e bambini in Libia sono detenuti in modo arbitrario, privati della libertà a seconda dell’appartenenza tribale, delle relazioni familiari e delle presunte affiliazioni politiche», si legge nel Rapporto. «Le vittime non hanno nessuna possibilità di ricorrere a strumenti legali, mentre i gruppi armati godono di un’impunità totale».

Pubblicato in collaborazione con la Missione di supporto dell’Onu in Libia, il Rapporto si concentra sulle violazioni dei diritti umani relative alle modalità di arresto e detenzione nel Paese, analizzando la situazione dal 17 dicembre 2015, giorno della firma dell’Accordo Politico Libico (Apl), con l’obiettivo del raggiungimento di un Governo di Unità Nazionale, fino ad arrivare al 1 gennaio 2018.

Secondo il report l’implementazione delle misure per fare fronte alle detenzioni arbitrarie, previste anche dall’Accordo Politico Libico, è rimasta ampiamente inattuata. A sollevare forte preoccupazione è inoltre il ruolo chiave attribuito dal governo ai gruppi armati nel Paese.

«Invece di mettere un freno ai gruppi armati, riconducendone i membri sotto l’autorità dello stato e le sue strutture di controllo, le amministrazioni libiche hanno fatto affidamento a questi gruppi in maniera crescente, per quanto riguarda le funzioni relative all’autorità giudiziaria, inclusi gli arresti e le detenzioni, mettendoli a libro paga e fornendo attrezzature e uniformi».

Una strategia pericolosissima che ha attribuito a questi gruppi un potere crescente, sottraendoli alla possibilità di un controllo istituzionale.

«Il Rapporto non solo rivela gli abusi orribili e le violazioni a cui sono sottoposti i libici privati della propria libertà, ma anche l’orrore e l’arbitrarietà di queste detenzioni, sia per le vittime che per le loro famiglie», ha dichiarato Zeid Ra’ad Al Hussein. «Queste violazioni e questi abusi devono essere fermate e i responsabili di questi crimini devono essere ritenuti pienamente responsabili».

Secondo il report si stima che a ottobre 2017 fossero circa 6.500 le persone detenute nelle carceri controllate dalla polizia giudiziaria del Ministero della Giustizia libico ma l’Onu non ha avuto accesso ai dati relativi ai centri di detenzione sotto la giurisdizione dei Ministeri dell’Interno e della Difesa, né a quelle “informali” gestite direttamente dai gruppi armati.

«Questi centri sono noti per l’utilizzo endemico della tortura e per altre violazioni e abusi di diritti umani. Ad esempio, il centro di detenzione della base aerea di Mitiga è gestito dalla Special Deterrence Force (SDF), un gruppo armato alleato del Governo di Unità Nazionale di al-Sarraj e sotto il controllo del Ministero dell’Interno», secondo l’Onu, «qui sarebbero detenuti 2.600 persone tra uomini, donne e bambini ai quali sarebbe negato l’accesso all’autorità giudiziaria. I detenuti sono soggetti a torture, uccisioni, oltre ad essere privati delle cure mediche e costretti a vivere in condizioni di estremo disagio». Secondo il rapporto, i corpi di centinaia di persone sono stati ritrovati per strada, negli ospedali e delle discariche, molti portavano segni di ferite, torture e colpi di pistola.

L’Ohchr ha sottolineato l’importanza da parte delle autorità libiche di condannare pubblicamente la tortura, gli abusi e le esecuzioni nelle carceri e di assicurare che vengano accertate le responsabilità di questi crimini. «Come primo passo gli attori governativi e non governativi che controllano il territorio ed esercitano funzioni simil-governative, devono rilasciare chi è detenuto in modo arbitrario e chi è privato della propria libertà illegalmente. Chi invece è detenuto legalmente deve essere trasferito in carceri ufficiali sotto il controllo efficace ed esclusivo dello Stato», ha scritto l’Ohchr, «la mancanza di azione non infliggerà solamente una sofferenza su migliaia di detenuti e le loro famigli e provocherà altre perdite. Sarà anche profondamente negativa per qualsiasi sforzo di stabilizzazione, peacebuilding e riconciliazione».

La pubblicazione del Report arriva a pochi giorni di distanza dalla notizia dell’acquisizione da parte della Corte penale internazionale del rapporto Onu del 12 febbraio sulla Missione di supporto in Libia (Unsmil).

Anche in questo Rapporto si denunciava la violazione sistematica dei diritti umani, sottolineando inoltre i comportamenti violenti della Guardia Costiera libica nelle missioni di intercettazione dei migranti. «Ad esempio, il 6 novembre 2017, i membri della Guardia Costiera avevano picchiato i migranti con una fune e agli vevano puntato addosso delle armi da fuoco, durante un’operazione di soccorso».

Una minaccia di morte da parte della Guardia costiera libica è stata documentata con un video anche dall’Ong Proactiva Open Arms che, nel corso dell’ultima missione di ricerca e soccorso, aveva rifiutato di consegnare i migranti salvati.

La nave dell’organizzazione è poi stata sequestrata dalle autorità italiane una volta approdata a Pozzallo e e tre persone dell’equipaggio, tra cui il capitano Marc Reige e la capomissione Anabel Montes, hanno ricevuto un avviso di garanzia.

Foto: Alessio Romenzi (Unicef)

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