Formazione
Serve una nuova didattica della Shoà
«Non ci si deve limitare soltanto alla ricostruzione storica, seppur indispensabile, come non può esistere soltanto la testimonianza; bisogna capire l’importanza di allargarsi ad altre discipline. Bisogna capire l’importanza di avere un approccio multidisciplinare», sottolinea Giordana Terracina, diplomata al Master Internazionale in Didattica della Shoah presso l'Università di Roma Tre. L'intervista
di Asmae Dachan
In occasione del Giorno della Memoria è importante chiedersi se ci sia davvero una consapevolezza adeguata di quanto accaduto. Ne abbiamo parlato con Giordana Terracina, diplomata al Master Internazionale in Didattica della Shoah presso l'Università di Roma Tre, ha collaborato alla Fondazione Museo della Shoah di Roma, frequenta il dottorato di storia all'Università di Tor Vergata.
Spesso ha scritto nei suoi articoli che servirebbe una nuova didattica della Shoà. Cosa intende?
Stiamo assistendo al tracollo della didattica della Shoà per come è stata portata avanti fino adesso. Vengono continuamente fuori gruppi e iniziative che inneggiano al fascismo e al nazismo. Tutto serve per riportare in voga simboli e linguaggi del passato, e di fronte a un qualsiasi evento, c’è subito chi fa un riferimento improprio ad Auschwitz, come accaduto di recente, con chi lo ha paragonato al Covid. Un atteggiamento che è ancora molto radicato nella società italiana. Tutto questo rappresenta, da un certo punto di vista, un fallimento della didattica della Shoà, perché significa che non siamo stati capaci di far comprendere alle nuove generazioni certi valori e certe idee.
Che tipo di cambiamento servirebbe?
Sono dell’avviso che la didattica della Shoà non si debba limitare soltanto alla ricostruzione storica, seppur indispensabile, ma avere un approccio multidisciplinare, come è stato per il master internazionale di secondo livello in didattica della Shoah che ho seguito all’Università Roma 3. Ho avuto professori di psicologia, di antropologia, sociologia, proprio perché è necessario avere un inquadramento multidisciplinare appunto, e capire l’evento della Shoà sotto tutti i punti di vista. Così come non può esistere soltanto la testimonianza; bisogna capire l’importanza di allargarsi ad altre discipline. Manca una riflessione psicologica, un affrontare un lutto collettivo; non c’è stata mai questa volontà in questo senso. Non sono stati portati avanti studi che permettessero di capire l’evoluzione di un processo, perché contrariamente a quanto si vuol far credere, non è stato un processo deciso sin dall’inizio, ma è stato il risultato di una evoluzione, dell’entrata in guerra, e di tantissimi fattori che dobbiamo riuscire a comprendere.
Pensando ai giovani, quale approccio bisognerebbe usare perché diventino davvero consapevoli?
Non ci si può limitare a portare i ragazzi ad Aushwitz a far vedere loro le camere a gas, perché così non rimarrebbe loro niente, oltre alla commozione iniziale, non capirebbero che non è stato “solo un problema di altri”. Oltre all’educazione multidisciplinare, come già detto, serve anche una formazione specifica nella storia locale. È inutile che porto un ragazzo italiano ad Auschwitz se prima non l’ho portato al campo di concentramento di Fossoli o a Bolzano e Trieste. È fondamentale che ci sia una conoscenza e una consapevolezza della storia italiana, perché la vicinanza rende più facile la comprensione e anche il coinvolgimento dei ragazzi. Immaginiamo di chiedere a un giovane di fare un giro per i quartieri e di cercare di capire cosa sia successo lì. Magari si trova all’Hotel Excelsior dove fu ospitato l’Alto Comando della Wehrmacht, oppure a Palazzo Braschi sede dall’autunno del 1943 del partito fascista repubblicano e quartier generale della Guardia Armata di Palazzo Braschi. Così si prende atto che la storia è la storia della propria città, che la Shoà non è soltanto la Polonia, la Germania. Non si riesce altrimenti a comprendere come mai ancora oggi ci sia chi porta avanti ideologie dell’odio.
Anche gli adulti dovrebbero quindi avere un approccio diverso.
Quando ho lavorato al Museo della Shoà di Roma, mi è capitato spesso di vedere turisti, italiani e stranieri che si stupivano del fatto che anche in Italia ci sia stata la Shoah. Questo perché non è conosciuta, non è studiata, non è messa nella giusta prospettiva. Un altro problema è che ci si limita soltanto al periodo di Aushwitz, partendo dal ’42, senza contare tutto quello che c’era stato prima, come l’invasione della Russia, l’eccidio da parte delle truppe tedesche. Dobbiamo risalire alla Prima Guerra Mondiale per capire che la radice del male è là. La guerra di trincea ha abituato l’uomo alla brutalità, all’uso del gas, rendendo il male un’abitudine. Prima non era così. Con la Prima Guerra Mondiale si è rotto un tabù. È il caso, quindi, di andare indietro e capire quali sono stati i processi di incubazione, tornare al discorso delle colonie, del darwinismo sociale, dell’eugenetica. Bisogna capire che quest’ultima c’è stata anche in Italia, non nelle proporzioni della Germania, ma era un pensiero diffuso ed è stata un fattore determinante. Se non si comprendono queste cose, è inutile il viaggio ad Auschwitz.
Quale valore dare oggi al Giorno della Memoria?
Non bisogna affatto andare a intaccare il concetto dell’unicità della Shoà ebraica, perché non c’è stato nulla di simile, ma bisogna far comprendere che sono stati portati nei campi di concentramento molti soldati italiani, molti anti-fascisti, anche se non se ne parla. Invece il Giorno della Memoria è dedicato tutto ad Auschwitz, alla Shoah ebraica, ai campi di concentramento sugli ebrei. Non vengono dedicate trasmissioni agli Imi (Internati militari italiani, n.d.r.), ai portatori di handicap, ai Sinti, ai Rom che sono stati portati nei campi di concentramento, e ne emerge che la Shoah è soltanto la Shoah ebraica. Gli ebrei devono quindi sostenere da soli il peso della memoria, quando in realtà dovrebbe essere una memoria condivisa, allargata, chiaramente con le dovute distinzioni. Così si fa l’associazione Auschwitz-ebrei e c’è gente che dice che “gli ebrei, come popolo eletto si ergono a giudici e pretendono che il dolore sia soltanto il loro”. In realtà non lo pretendono affatto, è che sono stati messi nella condizione perché non si sono volute affrontare volutamente altre tematiche. Sarebbe interessante, invece, che il 27 gennaio si parlasse anche delle altre vittime.
C’è una differenza nel modo in cui la Germania e l’Italia hanno fatto i conti con il loro passato?
Sì, una differenza enorme. In Germania hanno costruito, ad esempio, dei percorsi della memoria, ci sono quartieri dove vengono indicati gli avvenimenti, gli episodi storici. È stato fatto un grosso lavoro a livello di responsabilità collettiva, mentre in Italia no. In Italia c’è giusto qualche targa, non un percorso storico tracciato, che ti porta a vivere la città e comprendere i luoghi, che invece sarebbe importante. Anche il fatto che ci sia stato il Processo di Norimberga ha significato molto. Qui invece, si parla molto poco del percorso creato per la fuga dei nazisti, se ne sa molto poco, ma in realtà molti arrivarono in Italia e riuscirono a passare dal Brennero dove era stata messa in piedi un’associazione che li portava a Genova e da lì si facevano fuggire verso l’America latina. Così ci si trova poi con il proliferare delle formazioni neo-fasciste e neo-naziste e ci si chiede da dove sbuchino. Non è che sbuchino dal nulla, hanno radici nel ‘44, dalla fine della guerra, è una prosecuzione della repubblica sociale.
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