Mondo

La mia cura? La pace

Dal 24 marzo, inizio dei raid Nato, il professor Shepanovic resta 24 ore su 24 nel suo ospedale di Belgrado.

di Gabriella Meroni

Ci sono molti bambini kosovari che scappano di fronte ai serbi, in Kosovo. Hanno paura delle uniformi dei soldati, delle loro minacce. I bambini che arrivano nei campi profughi di Macedonia e Albania tremano al solo sentire pronunciare poche parole in serbo. Ma a Belgrado, nella capitale della Jugoslavia, ci sono bambini e famiglie kosovare che proprio in un serbo ripongono le loro speranze di vita e salvezza. E quel serbo li ripaga sacrificando per loro la propria vita e anche la propria famiglia, dall?inizio della guerra. Un segno di normalità e convivenza ancora possibile, anche sotto le bombe, anche mentre non sembra esserci argine all?odio. «Odio?» risponde il dottor Raso Shepanovic, 47 anni, direttore sanitario dell?ospedale Draghisa Mizovic, in cui sono ricoverati decine di bambini albanesi del Kosovo affetti da gravi malattie respiratorie, come la tubercolosi. «Non posso odiare persone povere, persone che soffrono, come questi bimbi kosovari. Questa è una tragedia per tutti, il mio odio non avrebbe alcun senso». Il professor Shepanovic, il serbo che dà speranza ai piccoli kosovari, oggi non vive più a casa sua. La notte del 24 marzo, data di inizio della guerra, non ci ha pensato due volte. Ha telefonato alla moglie croata e ai due figli, entrambi universitari, e ha detto: «Stasera non aspettatemi». Da allora non è più uscito dall?ospedale: dorme lì dentro, per essere più vicino ai suoi piccoli pazienti kosovari e a tutti gli altri. «Il mio posto è qui, con i miei malati, i miei bambini. Sono loro il mio dovere, il mio primo dovere», dice Shepanovic. «Questo ospedale per loro è come una casa, molti stanno qui per tanti mesi perché la tubercolosi è lunga da curare e i loro genitori sono poveri, non possono venire a trovarli spesso. Siamo noi la loro famiglia. Adesso, poi, con la guerra è tutto più complicato: non ci sono strade, né ponti. Ci sentiamo isolati, e questi bambini più di noi. Come potrei lasciarli, anche solo per un momento?». Così non li lascia. E loro lo considerano una specie di vice papà. Un papà serbo. «Vorrei che venisse nel mio studio a vedere: è tutto pieno dei loro disegni, delle loro fotografie, dei loro messaggi di bambini prima infelici e dopo guariti. Alcuni mi scrivono ancora, vogliono sapere come sto. Prima che le bombe ci colpissero stavamo costruendo un nuovo reparto di pediatria, i muri li avevano colorati loro. Chissà quando lo potremo aprire». La notte del 28 aprile, infatti, due bombe colpiscono l?ospedale danneggiando 20 padiglioni su 24, compreso il reparto pediatrico. «Mi sono precipitato lì appena il fumo si è diradato», racconta il dottore con la voce arrochita dalla commozione. «È impossibile da descrivere, posso dire che era orribile, ma è solo una parola. Ho visto gli occhi di questi bambini, la loro paura, si sono girati tutti verso di me cercando protezione. Mi hanno detto: tu eri qui, perché non ci hai difeso? Cosa è successo? Io ero senza parole. È incredibile, stupido, come questa guerra. Adesso abbiamo dovuto evacuare quasi tutti i reparti, e i bambini ormai convalescenti sono stati dimessi. Sono ritornati in Kosovo con i loro genitori, e io non riesco a togliermeli dalla mente. Cosa faranno, cosa gli accadrà? In Kosovo è impossibile vivere». Nella mente del dottor Shepanovic si accavallano volti, nomi e storie. Come quella di Roberto, un bimbo kosovaro dal nome italiano che arrivò nel suo reparto a due mesi di vita e se n?è andato pochi giorni fa, il 6 maggio, che sapeva già camminare. Destinazione: Lebanje, Kosovo. Lo sa però dottore cosa si dice della pulizia etnica che i serbi stanno compiendo in Kosovo? Ne è al corrente? Cosa ne pensa? «Non voglio fare politica» risponde, irrigidendosi. «In guerra è difficile dire chi è colpevole, o meglio, sono tutti colpevoli, tutti i governi, perché i crimini di guerra ci sono da entrambe le parti e tutti ne sono responsabili». Fine del commento. «I kosovari sono povera gente» continua il professore. «Persone normali che vivono del loro lavoro. Non vogliono la guerra, ma solo continuare a vivere in pace con i loro vicini, serbi o albanesi che siano. Noi serbi siamo solo il 60 per cento della popolazione in Jugoslavia, gli altri sono albanesi, croati, ungheresi. Dobbiamo vivere insieme in una sola nazione, in pace. Qui a Belgrado stavamo tutti insieme, prima della guerra. E per fortuna nel mio ospedale non è cambiato niente, la guerra non ci ha reso peggiori. Anche sulla religione: io sono ortodosso, mia moglie è cattolica. Qui le famiglie e i bambini sono musulmani, ma per me non conta. La religione non è un ostacolo, non chiedo mai a nessuno in che Dio crede. Quanto a me, d?ora in poi crederò soltanto nel Dio della pace». Oggi mentre scriviamo, lunedì 10 maggio, è una buona giornata. La notte scorsa le sirene hanno taciuto sopra Belgrado, non ci sono stati bombardamenti e il professor Shepanovic è riuscito a dormire. «Si vede che la Nato sta studiando meglio i suoi obiettivi», sorride. «E pensare che questo ospedale è dedicato a un gruppo di infermiere inglesi che sono morte in Serbia, durante la prima guerra mondiale, per portare aiuto ai nostri soldati. C?è una targa nell?ingresso che le ricorda, e dice: a quelle donne coraggiose che diedero il sangue per la loro ?seconda patria?. Ecco: se la pace non verrà presto, coprirò quella targa con un drappo nero. Ce l?ho già pronto. Ma spero di non doverlo mai usare».


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