Cultura

Rovesciare la prospettiva, far fiorire i deserti

Mai come oggi l'attenzione dei media su morte e violenza può essere qualificata come "morbosa". Come reagire?

di Pietro Piro

Il triste caleidoscopio della violenza

Triste è la violenza. Ancora più triste però, è la morbosa e perversa attenzione che i media dedicano agli episodi di violenza. Il loro soffermarsi ossessivo sul male consumato. L'estetica del sangue versato e le finte lacrimedi coccodrillo di commentatori. Tutto proposto e riproposto, lanciato e rilanciato, imposto (in questa direzione potrebbe essere utile leggere il volume di Carmine Castoro, Il sangue e lo schermo: lo spettacolo dei delitti e del terrore: da Barbara D'Urso all'ISIS, Mimesis, Milano-Udine 2017).

Tutto questo straparlare di morte in pubblico è un negare. Un dire no alla vita, alla sua bellezza, al suo divenire creativo. Il violento in azione dei nostri giorni è sempre più un analfabeta morale, poverissimo di sentimenti creativi, un necrofilo e torturatore per vuoto di senso. Per chi sa osservare i segni dei tempi, la violenza odierna declina la sua opera nera a partire da un vuoto aggressivo, da un nulla letale, da un nichilismo tagliente e perfettamente realizzato. Le vittime restano sempre e comunque i più deboli, i più soli, i più fragili. Donne, bambini, migranti e tutti quelli che possiamo etichettare con una parola tanto vana quanto onnipresente: "diversi". In questo clima di "seduzione" della violenza e della morte, credo possa essere utile cercare rifugio in alcuni testi che aiutano a "capovolgere le prospettive" e ad adottare lo sguardo del "diverso" per ragionare con categorie più "allargate". Incontri necessari che aiutano a non cadere nello sconforto.


Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno

Walter Benjamin

Il diverso africano

Il primo incontro è con le parole di Giscard Kevin Dessinga nel suo: Quando l'occidente ci faceva ancora sognare. Dieci ragioni per non credere più ai falsi miti, Ursini Edizioni, Catanzaro 2013. Un libro scritto da un africano sul passato e sul futuro dell'Africa. Un libro che cerca d'invogliare il suo lettore ad adottare una prospettiva "decolonizzante" e credo che non sia un caso che l'autore parli dalla colonizzazione dell'immaginario e dei sogni: "Imporre il proprio sogno ad un altro popolo, senza avere rispetto dei suoi sogni, non è una ricchezza, ma una povertà, perché possiamo crescere solo mettendo insieme i nostri sogni diversi, integrandoli adeguatamente ed opportunamente per favorire la crescita" (p. 14). Il colonizzatore dell'Africa ha imposto il proprio modello culturale svalutando quello autoctono e imponendo un nuovo ordine del discorso: "L'Africa, con l'avvento dei colonizzatori, è stata inondata improvvisamente da una vera rivoluzione di modernità, dove le parole d'ordine erano migliorare, sviluppare e perfezionare i valori e le tecniche apprese.

La nuova tecnologia, la medicina moderna, i nuovi mezzi di comunicazione aprono un nuovo capitolo nella Storia dell'Africa, in cui le città, assumendo un vero e proprio ruolo di laboratorio, attraggono in modo significativo le grandi masse giovanili. Le campagne, quindi, si svuotano in un batter d'occhio e si mette in moto un incontenibile esodo rurale. Le popolazioni comprendono che la chiave d'accesso è fare come il maestro, cioè il colonizzatore, imitarlo, cercare di capire, per forare e scoprire il segreto della sua forza" (p. 27). "In breve, ad ogni epoca storica, una giustificazione ideologica, colonizzare per civilizzare, cooperare per sviluppare, globalizzare per lottare contro la povertà. Tutto è servito come giustificazione ufficiale per sfruttare l'Africa. E cosi, gli africani, sedotti dal vigore occidentale, sono stati incapaci di separare i fatti dalle opinioni" (p. 34).

Gli africani sedotti da un immaginario imposto e distorto, hanno dovuto negare le proprie radici e conoscere la vergogna dell'essere semplicemente se stessi: "La colonizzazione è l'esperienza della negazione. Negazione dell'altro e della sua dignità, della sua storia, della sua cultura e civiltà, del suo diritto alla vita, della sua libertà. In breve, è la negazione del diritto a poter essere diversi" (p. 41). Gli africani con la loro "diversità" sono stati costretti – e moltissimi lo sono ancora adesso – a servire i "sogni degli altri". Per Dessinga il futuro dell'Africa consisterà nell'adottare: "una vera e autentica etica del dissenso e di una spiritualità del discernimento" (p. 90), che le permetta "di rivedere le sue amicizie, razionalizzare le cause dei suoi fallimenti, individuare e correggere i suoi errori, costruire il suo futuro, smontare i freni a mano dal di dentro e dal di fuori che le impediscono di avanzare, che le impediscono di decollare" (p. 88). Per Dessinga se l'Africa vuole trovare una sua strada deve smettere di guardare all'Occidente perché è afflitto: "da forme estreme di pessimismo, di nichilismo, di relativismo, di frivolezza e dei NO ripetitivi alla vita" (p. 90).

L'Africa deve attingere alla propri antropologia che considera la vita un dono di cui bisogna essere grati (p. 93) è non una "colpa" che deve essere espiata. Per Dessinga: "l'africano deve partecipare al processo della propria liberazione e della sua rinascita. La rivalutazione dell'uomo africano è senza dubbio una sfida che il presente lancia al futuro" (p. 95). Concordo pienamente con l'autore quando afferma che la liberazione dell'Africa da un immaginario castrante sia la vera sfida del prossimo futuro.

Tuttavia, per quanto riguarda l'Europa, ritengo che siano ancora troppo pochi gli africani convinti che la propria condizione di cittadinanza passa attraverso la lotta politica per il riconoscimento. Le infinite difficoltà a cui sono sottoposti nei cosiddetti paesi d'accoglienza – è dimostrato che gli immigrati hanno spesso condizioni di vita e di impiego peggiori della popolazione autoctona a parità d'impegno – spesso limitano lo slancio di partecipazione alla vita sociale. Ma è proprio questo che manca. Una presenza politica che superi le logiche della sopravvivenza e avvii gli africani presenti in Europa lungo il cammino dell'auto-realizzazione politica.

Il diverso ecologico

Il secondo incontro è con il libro di Emanuele Leonardi, Lavoro, natura, valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, Orthotes, Napoli-Salerno 2017. Libro complesso, ben argomentato e "di profondità" che cerca di capovolgere la prospettiva dell'ecologia "di comodo" adottata dalle politiche dei "grandi della terra". Secondo Leonardi: "Le élites globali fanno propri i dettami della cosiddetta green economy, secondo la quale il limite ambientale non deve essere percepito come vincolo allo sviluppo, bensì come inedita opportunità di business, motore di crescita, fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione" (p. 16). L'ipotesi centrale del volume è che: "la costruzione di uno spazio
dialogico tra alcuni marxismi e alcune decrescite possa riaprire il vaso di pandora delle potenzialità emerse nel 1968-1973 e tuttavia rimaste inattualizzate. Questo blocco avvenne per una serie di ragioni, di cui almeno tre devono essere menzionate: la violentissima risposta del capitale; gli spazi politici ristretti della Guerra Fredda; l’incapacità

dei movimenti di comporre in una strategia univoca le istanze proposte dalle diverse identità politiche" (p. 151). Leonardi pone al centro della sua riflessione la centralità inedita assunta dai conflitti socio- ecologici: "le lotte socio-ecologiche sono costitutivamente trasversali: le loro possibilità di successo dipendono in buona misura dalla capacità di mantenere un orizzonte strategico preciso e riconoscibile senza scadere nel ripiegamento identitario – ossia mantenendo un elevato grado di inclusività (p. 155).

Leonardi vuole mostrare come le lotte femministe e di alterità ecologica vadano pensate dentro i conflitti di classe e alla luce di un nuovo nesso tra lavoro-natura-valore (p.162). Più che la decrescita Leonardi sostiene l'urgenza di una ecologia sociale alternativa che possa sostenere l'urgenza di queste mosse: "1- Debt audit (finalizzato alla ristrutturazione e parziale abolizione del debito); 2- Riduzione dell’orario di lavoro (32 ore settimanali e incentivi alla condivisione delle mansioni);62 3- Reddito di base e tetto ai grandi guadagni; 4- Eco-tasse (in particolare la carbon tax); 5- Cessazione immediata dei sussidi pubblici alle attività altamente inquinanti; 6- Incentivi alla produzione alternativa (non-profit, sistema cooperativo, filiere corte, ecc.); 7- Ammodernamento ecologico degli edifici; 8- Riduzione sostanziale dello spazio pubblicitario; 9- Introduzione di limiti all’inquinamento ambientale; 10- Abolizione del PIL come indicatore di progresso economico" (p. 172).

Per Leonardi lo spazio della politica è ancora decisivo: "L’apparente autonomia delle forze produttive, la seduzione tellurica del Progresso poggiavano infatti sulla reale – ancorché parziale – sovrapposizione della logica del valore e della logica delle ricchezze. Ora che il loro crescente divorzio si pone all’osservatore come auto-evidenza, i termini del problema mutano: l’intervento politico sulle forze produttive è diventato un elemento essenziale dei rapporti sociali di produzione. Il conflitto non si dà più al livello del mero uso della tecnologia, ma direttamente sul piano delle finalità cui lo sviluppo tecnologico deve orientarsi" (p. 200). Leonardi di fronte all'evidente crisi ecologica che socializza sempre di più i costi e i rischi delle scelte politiche e riduce sempre più il benessere nelle mani di pochi individui ci pone domande urgenti: "Che tipo di produttori vogliamo essere, in che orizzonte di società vogliamo vivere, quali relazioni vogliamo intrattenere con l’alterità che ci percorre e con quella che ci circonda? (p. 201). Occorre dunque pensare la crisi ecologica in connessione con le trasformazioni del lavoro e con lo sviluppo capitalistico per evitare di rimanere intrappolati nei "sogni degli altri".

Fioriranno i deserti

Felix Guattari ha scritto nel suo Le tre ecologie, Sonda Casale Monferrato 1991, p. 43 che: "In futuro, il problema non sarà più soltanto quello di una difesa della natura,bensì quello di un’offensiva per riparare il polmone amazzonico, per far rifiorire il Sahara. La creazione di nuove specie viventi, vegetali ed animali, si affaccia ineluttabilmente al nostro orizzonte e rende urgente non solo l’adozione di un’etica ecosofica adatta a questa situazione terrificante ed affascinante insieme, ma altresì una politica focalizzata sul destino dell’umanità. Alla narrazione della genesi biblica stanno per sostituirsi le nuove narrazioni della ricreazione permanente del mondo". Ecco di cui abbiamo veramente bisogno, allora, di un pensiero che sappia far rifiorire i deserti. Di uno sguardo che sappia rovesciare la prospettiva e adottare lo stile di vita del diverso per verificarne le potenzialità e i vissuti. Ancora, e poi ancora e ancoraponti, anziché muri.

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