Non profit

La socialità non si chiude

Molte attività sono ferme in quanto considerate dai vari Dpcm dentro il perimetro dei centri culturali, sociali o ricreativi. Tanti enti però cercano in altro modo di essere vicini alle persone e alle famiglie, continuando a garantire relazioni e solidarietà a domicilio o in forme diverse. Uno sforzo che il Governo deve vedere e sostenere

di Emiliano Manfredonia* e Stefano Tassinari

Nella crisi Covid giustamente si tiene conto prioritariamente dell'impatto sulla salute. In secondo luogo si tiene conto dell'impatto economico e sociale che rischia di pregiudicare centinaia di migliaia di posti di lavoro e far esplodere le già forti diseguaglianze.

Meno considerata è però la questione della socialità, che è di fatto la terza dimensione sociale profondamente colpita in ordine di importanza. Eppure questo problema diventa più forte in una prospettiva nella quale appare sempre più chiaro che restrizioni e limitazioni saranno necessarie per un periodo ancora molto lungo. C'è innanzitutto da considerare un dramma legato alle tante forme di solitudine, che vanno ben oltre la pur indispensabile constatazione che oggi, nel nostro paese, più di 1 persona su 7 vive sola, come nel caso di molti anziani, che sempre più spesso non hanno neanche un convivente nello stesso comune.

La socialità non è legata solo a tante altre situazioni più fragili, che coinvolgono anche tanti minori. Troppo spesso, erroneamente, la si considera un aspetto a parte. Un errore grave perché essa costituisce il vero e proprio sistema di circolazione attraverso il quale si veicola e radica la fiducia diffusa sulla quale tutto si regge, democrazia ed economia incluse. Senza relazioni e solidarietà umana non vive nulla e il corpo sociale rischia di entrare in una sorta di necrosi. Molto può fare nell’emergenza l’uso dei "social" (immaginiamo solo per un attimo se questa pandemia fosse arrivata anche solo dieci anni fa), ma è sbagliato pensare che possa essere risolutivo sul lungo periodo. C’è prima di tutto una tessitura feriale dei legami non disgiunta da un’opera di solidarietà e inclusione che si perpetua da sempre in silenzio e lontano dai riflettori. A ciò sono dedite le associazioni di Terzo settore, presenti spesso in piccoli comuni, in borgate o quartieri dove esiste poco o nulla d’altro. Associazioni quasi esclusivamente sostenute da una consolidata opera di autofinanziamento popolare.

Molte di queste attività sono chiuse in quanto considerate dai vari Dpcm dentro il perimetro dei centri culturali, sociali o ricreativi, in ragione della necessità di ridurre le situazioni di vicinanza fisica. Tanti enti cercano in altro modo di essere vicini alle persone e alle famiglie, continuando a garantire relazioni e solidarietà a domicilio o in forme diverse. Tuttavia, sia per poter sostenere questi sforzi, spesso indispensabili durante l’emergenza, sia per evitare che molte di queste esperienze non riescano a riaprire una volta cessata la fase di rischio, è assolutamente urgente mettere a segno alcuni provvedimenti.

Primo: non essere trattati peggio dei bar.
Dove si definissero le ipotizzate zone bianche, si preveda una loro riapertura. Dove vi siano le zone gialle, queste associazioni, in sicurezza, possano almeno continuare quelle attività strumentali e complementari alle loro attività principali, anche se temporaneamente slegate da esse, indispensabili per trovarsi ancora in piedi organizzativamente anche dopo, in analogia con quanto avviene in altri settori (ad esempio i bar). L’attività di autofinanziamento, infatti, è fondamentale per coprire quei costi che gli Enti di Terzo settore si trovano ad affrontare sia nella fase di sospensione che nel momento (quando avverrà) della riapertura totale. Infatti, anche un doveroso e urgente incremento dei fondi sul fronte ristori da solo non basta, per il semplice motivo che ripartire è molto diverso che continuare. Vale per le imprese e, almeno doppiamente, vale per le associazioni. Quindi non si comprende perché, laddove nel rispetto della sicurezza e dei limiti conseguenti, come nel caso delle zone gialle, molte realtà di Terzo settore, che in quartieri e paesi rappresentano luoghi di incontro e relazione da preservare in quanto strategici soprattutto per la futura ripartenza, debbano continuare ad essere maggiormente penalizzate rispetto a tanti bar o altri esercizi.

Secondo: bene il Fondo straordinario per il sostegno degli enti di Terzo settore, però 70 milioni sono pochissimi.
Molti faranno fatica, comunque, a riaprire o riprendere a pieno regime. Il Fondo straordinario se da un lato e in maniera positiva si aggiunge ad un incremento dei fondi per i progetti di questo mondo (insieme alla preziosa apertura di un tavolo sulle norme fiscali), dall’altro lato tuttavia non è sufficiente, soprattutto se paragonato ai fondi stanziati su altri campi. Ecco perché serve portare a 400 milioni le risorse e prevederne almeno il finanziamento per un’altra annualità nel 2022. Questo perché i 70 milioni attuali sono assolutamente insufficienti (sono stimati circa 100mila enti potenziali che potrebbero avere accesso al fondo) e iniqui nel paragone con altri settori anche non profit. Il tutto accelerando il processo di messa a disposizione delle risorse già stanziate. Con questi provvedimenti si garantirebbe a tantissime associazioni la prospettiva di una ripartenza insieme a quel minimo di attività che in una fase eccezionale è indispensabile, anche per supportare azioni di servizio, solidarietà e promozione della socialità a favore di chi resta a casa.

Terzo: lo sviluppo sarà autentico e sostenibile se sarà “sociale”
Tutto ciò non è disgiunto da una serie di altre richieste del Terzo settore, in particolare attraverso il Forum del Terzo Settore. In una programmazione strategica e innovativa delle risorse disponibili (Recovery e non solo) il Terzo settore sia coinvolto come partner essenziale per uno sviluppo che sarà capace di essere sostenibile solo se sarà innanzitutto “sociale”. “Sociale” significa partecipato, significa interpretare la programmazione e la messa in opera delle azioni, con l’ausilio del Terzo settore, come una grande convocazione delle comunità a un loro protagonismo, non campanilistico o appannaggio del notabilato locale, ma effettivamente aperto alle persone e ai soggetti che le animano, dentro la condivisione di un progetto nazionale. “Sociale” significa che ad andare in crisi nella pandemia è stato per primo il nostro sistema di promozione e protezione sociale, la consistenza del nostro essere tutti insieme società, nelle sue lacune ampie di diritti e responsabilità. C’è un deficit di giustizia sociale con cui fare seriamente i conti, a cominciare dalle carenze costituzionali in tema di lettera “m” dell’articolo 117 della nostra Costituzione: i livelli essenziali delle prestazioni.

E in questo deficit tragicamente si inscrive (come denuncia, tra gli altri, in questi giorni drammatici, la rete “RiVolti ai Balcani”) innanzitutto la quasi assenza e indifferenza dei piani europei e globali sull’emergenza che riguarda il soccorso e l’accoglienza di chi fugge dalla fame e dalla guerra, spesso scaricati lontani dagli occhi. Pagheremo gravemente questa grande miopia collettiva: non capire quanto l’emergenza pandemica ci leghi in un tutt’uno al destino dell’ancora più grave e catastrofica emergenza umanitaria globale, figlia di un quadro internazionale che pare sempre più fuori controllo o, peggio, appannaggio del protagonismo di nuove derive sovraniste e totalitarie, nonché delle mafie e delle loro economie sempre più infiltrate nella normalità. Non c’è giustizia sociale e tanto meno futuro se si discriminano le persone. E le loro emergenze.


*vicepresidente vicario delle Acli e Presidente Patronato Acli
**vicepresidente Acli e Responsabile Acli Terzo settore

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