Politica

La Foggia che ci rappresenta non è sul quel balcone

"Un’arma, anche se giocattolo, non può essere utilizzata con leggerezza, soprattutto in una città violentata dalla criminalità. Ecco perché dobbiamo resistere, anche se stanchi". Lettera aperta di un'operatrice sociale e giornalista dopo la bravata del presidente del consiglio comunale ora dimissionario

di Annalisa Graziano

Non in mio nome. E nemmeno in quello di decine di migliaia di foggiani che si sono indignati e, subito, hanno preso le distanze. Le immagini del presidente del consiglio comunale di Foggia dimissionario, Leonardo Iaccarino, che spara con una pistola (“giocattolo con tappo rosso”, preciserà poi) gridando in dialetto “non è una barzelletta”, con gestualità poco consone a qualsiasi ruolo pubblico, non ci rappresentano. Quei colpi, gli atteggiamenti, la voce di un bambino che incitano a sparare ancora su quel balcone, quando l’arma si è inceppata, rappresentano – al contrario – una ferita per l’intera comunità. Un’ulteriore sconfitta: il giorno prima era stato diffuso un altro video amatoriale con protagonista il figlio 16enne dello stesso politico che, dalla medesima postazione, aveva sparato almeno quattro colpi, sempre con un’arma giocattolo. Era stato lo stesso Iaccarino a rivelarlo in un post facebook scusandosi e definendolo un “gesto talmente irrilevante”. Un’azione – aveva ricostruito – “che mio figlio ha fatto la sera del 31 dicembre sul balcone di casa, un puro gesto goliardico dettato dalla festività e dalla sua età (sedicenne). Fatto con una pistola a salve legalmente acquistabile, perché in possesso del tappo rosso che appunto ne evidenzia la assoluta non pericolosità”.

Non immaginava, probabilmente, l’ex presidente del consiglio comunale di Foggia che poche ore più tardi qualcuno avrebbe diffuso un video simile il cui personaggio principale è proprio lui, che i sedici anni li ha superati da un pezzo e ha un ruolo pubblico. Un ruolo che riveste ancora, essendosi dimesso – dopo un iniziale rifiuto – da presidente dell’assise, ma non da consigliere. Ebbene, a chi tra i suoi sostenitori non comprende la gravità di un gesto simile forse sfugge qualche passaggio. La criminalità organizzata ferisce il nostro territorio quotidianamente con attentati, rapine, violenza.

Quello stesso 31 dicembre alcuni rappresentanti dei clan locali si sono fatti riprendere in video mentre sparavano al cielo augurando il “buon anno alla malavita”. Sono stati denunciati, ma il problema c’è ed è urgente: sta piagando il tessuto sociale. Dunque, sembra assurdo doverlo evidenziare, ma non si può giocare su certe cose. Non è un gioco per noi cittadini, non lo è per i magistrati e per le forze dell’ordine che rischiano la vita, ogni giorno, per ricordarci che lo Stato c’è. La società civile, le organizzazioni antimafia e del terzo settore, a Foggia, sono impegnate da anni nella lotta all’illegalità. È dovere di ogni cittadino, in primis di chi rappresenta la comunità in assise comunale, riflettere sulle cause e sugli effetti dei fenomeni criminali e sulla necessità di combatterli attraverso un cambiamento di cultura e di mentalità. È un dovere agire, non si può pensare di scimmiottare le peggiori serie tv come se nulla fosse.

Il Consiglio comunale è il massimo organo rappresentativo della comunità locale ed espressivo della domanda sociale. È l'organo di indirizzo di controllo politico-amministrativo dell'ente locale, interprete permanente della volontà popolare. Ecco, le pistole non rappresentano la nostra volontà e non importa se vengono utilizzate in versione giocattolo su un balcone: a Foggia (come altrove) rappresentano la brutalità, la violenza, la morte. Un cittadino, un rappresentante delle Istituzioni certe cose non le fa, punto. Per questo, la Foggia che ci rappresenta non è su quel balcone. È nell’impegno delle associazioni che distribuiscono alimenti e indumenti alle famiglie indigenti. È nel lavoro quotidiano di alcuni parroci che si dividono tra chiese e strada; è nella missione che i sanitari svolgono nelle corsie di ospedale, con abnegazione. È nel dormitorio e nei B&B in cui i volontari accompagnano i senza fissa dimora; è negli insediamenti informali dove medici e infermieri delle ONG curano i migranti; è nelle carceri dove i cappellani si fanno ponte di solidarietà tra il dentro e il fuori, nonostante un’epidemia che sta piegando il mondo.

È nel lavoro di educatori, insegnanti, giornalisti, operatori sociali che costruiscono ponti per il futuro. È nelle serrande che si alzano ogni giorno, nonostante la crisi e gli episodi di violenza. Non è facile, ma occorre – ancora una volta – trovare il coraggio e la forza di rispondere positivamente a questi strappi. La solidarietà, di cui siamo capaci, può e deve trasformarsi in una vera e propria assunzione di responsabilità collettiva: diritti e doveri, caratterizzati da una reciprocità che impedisca ai membri della comunità di sottrarsi ai propri obblighi “morali”. Oggi, è l’unica strada per salvarci da una deriva sempre più pericolosa.

Siamo stanchi, ma resistenti.

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