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Bosnia e quei migranti che sta condannando a morte
Il 23 dicembre scorso il campo profughi di Lipa è stato chiuso. Durante lo sgombero un incendio ha distrutto la struttura. Centinaia di profughi sono rimasti al gelo e sotto la neve. A causa delle proteste della popolazione locale è stato impossibile spostarli in altri campi. Ora a Lipa l’esercito sta allestendo le tende, ma manca tutto: servizi, elettricità, acqua. «Lasciare i migranti a Lipa è la peggiore delle soluzioni possibili», spiega Daniele Bombardi, coordinatore Caritas Italiana del Sud Est Europa, «siamo davanti ad una catastrofe umanitaria»
di Anna Spena
La prima Rotta Balcanica parte ufficialmente il 25 ottobre del 2015: Grecia, Macedonia, Serbia e Ungheria. Allora furono oltre 800mila i migranti, soprattutto siriani in fuga dalla guerra, che provarono a percorrerla. In molti arrivarono finalmente in Germania per chiedere l’asilo politico. Ma per l’Europa erano “troppi”. Così pochi mesi dopo, nel marzo del 2016, Bruxelles sigla un accordo con Ankara per limitarne l’arrivo. Ma i confini sono come un colabrodo quando a far partire le persone è la disperazione. E infatti i rifugiati in cerca di una nuova casa non smisero di provarci, solo cambiarono la strada. Così dal 2018 si sono venuti a creare altri due percorsi, il primo tra la Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia e l’altro tra Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia. Ma una volta arrivati in Bosnia Erzegovina si rimane bloccati. I migranti tentano il “game”, l’espressione che utilizzano per indicare il passaggio tra il confine bosniaco e quello croato, ma vengono scoperti dalla polizia croata, picchiati, torturati, derubati e poi rispediti indietro.
Numeri ufficiali non esistono: «Si stima», spiega Daniele Bombardi, coordinatore Caritas Italiana del Sud Est Europa, che è presente e lavora nel Paese con Ipsia – Istituto pace sviluppo innovazione Acli, «che attualmente vivano in Bosnia Erzegovina circa ottomila persone. 5mila nei campi profughi e 3mila fuori dai campi, nei boschi o negli squat (case e fabbriche abbandonate). A quelli che già vivenono per strada ora si aggiungono quindi anche i circa 1200 profughi che stavano a Lipa».
La maggior parte dei profughi si concentrava nel cantone di Una Sana, ma dopo la chiusura del campo di Bira, a Bihač, una ex fabbrica di frigoriferi gestita dall’Iom ('International Organization for Migration), una parte delle persone è stata spostata nei campi di Mostar e Sarajevo. E durante la scorsa primavera un’altra parte è stata assegnata al campo di Lipa, tra Bihać e Bosanski Petrovac, l’ennesima struttura non adatta all’accoglienza. E infatti: «la storia degli ultimi giorni è complicata», continua Bombardi. «Iom aveva un contratto con il governo bosniaco per gestire il campo di Lipa fino all’inizio dell’inverno. A Lipa non c’è acqua, servizi, elettricità. La gente rischiava di morire di freddo e l’Iom ha più volte fatto presente al governo bosniaco che non avrebbe continuato a lavorare in quelle condizioni rischiando che i migranti morissero sotto la loro custodia. Il campo di Lipa si trova a 30 km da Bihač, letteralmente in mezzo alle montagne, le temperature sono rigidissime d’inverno».
Quello di Lipa infatti doveva essere un campo provvisorio ma alla decisione del governo di trasformarlo in campo ufficiale non sono partiti i lavori di adattamento, per assicurare appunto acqua corrente, elettricità, riscaldamento perché il Cantone di Una Sana e la municipalità di Bihač si sono opposte anche a questa decisione arrivata da Sarajevo, dichiarando che non accetteranno più sul proprio territorio campi per rifugiati vicini alle zone urbane.
Lo scorso 23 dicembre durante le operazioni di sgombero della struttura le fiamme hanno cominciato a divampare, non si conosce ancora la natura dell’incendio, il campo è andato completamente distrutto.
«La prima soluzione ipotizzata per i profughi che vivevano nel campo», spiega Bombardi, «è stata quella di riaprire il campo di Bira. Ma i cittadini di Bihač e le autorità locali hanno avviato una serie di proteste creando delle barricate, addirittura i pompieri hanno piazzato il loro camion davanti all’entrata e reso impossibile l’ingresso dei profughi. La seconda alternativa era quella di utilizzare come campo provvisorio una caserma tra Mostar e Sarajevo, e anche qui, appena è giunta la notizia alla cittadinanza locale, si sono sviluppate altre proteste. I profughi sono rimasti una notte intera sui bus che di fatto non sono mai partiti dal parcheggio di quello che è rimasto del campo di Lipa».
Ora la presidenza bosniaca ha inviato le forze dell’ordine a Lipa con il compito di allestire delle tende su quello che è rimasto del campo. «L’esercito ha effettivamente iniziato a montare le tende», dice Bombardi, «ma è una follia. Stanno cercando di ricostruire Lipa in fretta e furia ma nel campo, che ora è bruciato, continua a mancare tutto. Far stare i migranti a Lipa è la peggiore delle soluzioni possibili. Siamo davanti ad una catastrofe umanitaria».
«La gente», ha scritto sulla sua pagina Facebbok Silvia Maraone, project manager di Ipsia che lavora sul posto, «ha iniziato ieri uno sciopero della fame rifiutando il cibo e l'aiuto della Croce Rossa. Anche loro non hanno dormito nelle tende militari che il governo ha inviato ieri. Questo "campo" non è un posto dove vivere. Niente acqua, niente cibo, niente elettricità, niente WC, niente docce. La ricarica del telefono nell'unico negozio del posto costa 2 euro».
Quello della Rotta Balcanica e nel caso specifico quello che sta accadendo in Bosnia non è una questione emergenziale, ma strutturale e i vari cantoni con le loro municipalità sono sempre in disaccordo e opposizione al governo centrale di Sarajevo. «Il governo bosniaco nel suo insieme non è in grado di gestire l’accoglienza di queste persone. Non è in grado di programmare soluzione sui numeri reali di chi arriva. Il numero complessivo dei migranti è in aumento dopo i mesi del lockdown. La struttura politica della Bosnia Erzegovina non funziona già per i suoi cittadini e sta mostrando tutti i limiti per la questione migratoria. Trovare una soluzione è difficile. Con la popolazione cosi incattivita lo è ancora di più».
Qui l’appello di Rivolti al Balcani per fermare lo scacchiere della disumanità
Credit Foto: https://www.facebook.com/IPSIA.BIH/?ref=page_internal
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