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Come sta l’Africa? Guerre, cambiamento climatico, Covid e tanta voglia di ripartire

Rispetto al Covid, il Continente resiste. «Ma il grande virus rimane quello di sempre: il virus economico». Lo spiega in questa intervista Filippo Ivardi, direttore di Nigrizia, missionario comboniano che ha vissuto in Ciad per dieci anni ed è rientrato in Italia lo scorso gennaio, in attesa di ripartire appena sarà possibile

di Laura Solieri

Come sta il continente africano? Guerre, cambiamento climatico, Covid e tanta voglia di ripartire. Dai giovani e dalle donne. Ne parliamo con un grande conoscitore dell’Africa, Padre Filippo Ivardi, direttore di Nigrizia, missionario comboniano che ha vissuto in Ciad per dieci anni ed è rientrato in Italia lo scorso gennaio, in attesa di ripartire appena sarà possibile.

Rispetto al Covid l’Africa resiste, sicuramente con fatica ma è comunque il continente meno toccato dalla pandemia con il 4% dei casi a livello mondiale e il 3% delle vittime. Per ragioni legate al clima, all’età media della popolazione, a una risposta già pronta a diverse crisi di questo tipo, ad esempio quella connessa all’ebola. «Il Sudafrica è il paese più colpito con 2milioni e 200mila casi e 54mila vittime – spiega Padre Filippo – Anche il Kenya è molto colpito e si sta registrando una notevole insorgenza di casi in Marocco dove è in atto una campagna di vaccinazione, la prima in Africa, che dovrebbe riguardare l’80% della popolazione. Il grande virus, in ogni caso, rimane un altro: quello economico».

Da questo punto di vista, più della cooperazione, a livello italiano, chi aiuta veramente “a casa loro” sono i migranti stessi con le loro rimesse che, per ovvie ragioni, quest’anno hanno avuto un calo molto forte. «Ci sono stati inoltre diversi casi di frodi di fondi anticodiv che hanno causato molte proteste dal Malawi al Sudafrica alla Tanzania per la malagestione di questi soldi – prosegue Ivardi – Non è semplice aiutare, l’unico consiglio è andare sempre tramite i canali più sicuri e trasparenti».


A questa situazione, si accompagna quella della crisi climatica, destinata a peggiorare: solamente in Africa subsahariana sono previsti 50 milioni di migranti climatici da qui al 2050.
È in atto un processo di desertificazione molto forte e c’è stato un tentativo importante di creare una muraglia verde nel Sahel per tentare di arrestarla. Gli scorsi agosto e settembre ci sono stati fenomeni di inondazioni rilevanti: il Sudan è stato il paese più colpito, tanti raccolti sono andati in fumo – racconta Padre Filippo – Poi c’è il problema delle locuste che sta ritornando, portando via interi raccolti dall’Etiopia al Kenya alla Somalia, generando una serie di migrazioni che, va ricordato, per l’85% restano all’interno del continente».

Tanti, poi, i conflitti in corso, di alcuni dei quali si parla pochissimo…
Tra i conflitti in corso c’è quello interno all’Etiopia, dove il governo federale è in guerra con le autorità della Regione del Tigrai al nord del paese, al confine con l’Eritrea. È un conflitto che viene da lontano, le autorità regionali del Tigrai si sono ribellate al potere centrale, lo hanno anche attaccato militarmente e quindi c’è stato un intervento armato da parte delle forze federali etiopi che è ancora in corso, con oltre 50mila sfollati dal Tigrai verso il Sudan e innumerevoli violazioni del diritti umani e del diritto internazionale che come Nigrizia cerchiamo di monitorare costantemente.

La situazione della guerra in Libia, invece, ha avuto un’escalation durante la prima ondata di Covid; ora è da due mesi che stanno portando avanti operazioni di negoziato per arrivare a delle trattative e mettere insieme le varie parti in conflitto. C’è una certa speranza in Libia, nonostante la fatica di mettere insieme questi gruppi che si sono combattuti fino a ieri… Un altro conflitto di cui si parla pochissimo è quello in Camerun tra la parte anglofona che reclama l’indipendenza dal potere centrale e quella francofona: dal 2016 si sono registrati oltre 3mila vittime e oltre 200mila sfollati.

Un’azione è stata fatta con le recenti elezioni regionali per cercare di dare più autonomia ai territori, palliativo di un sistema che non vuole lasciarsi mettere in discussione: in Camerun c’è lo stesso presidente al potere dal 1982. Un conflitto ancora molto forte è ad est della Repubblica democratica del Congo dove contiamo 8 morti al giorno in media a causa di continui conflitti di gruppi di ribelli che nascono da un giorno all’altro e che mantengono una certa destabilizzazione all’est del Congo per poter rubare meglio i minerali di cui questa zona è ricchissima. Un ultimo richiamo è alle incursioni terroristiche armate, quasi settimanali, che mascherano interessi economici molto grandi, in Mali, Nigeria, Niger, Burkina Faso e a nord del Mozambico.

Si intravede però una grande speranza proveniente dai movimenti di giovani e donne che non stanno più zitti rispetto al passato e cercano di rivendicare la loro dignità e il loro ruolo attivo nella ricostruzione democratica del paese. Cosa sta succedendo?
In Nigeria, lo scorso ottobre, ci sono state proteste molto vivaci da parte dei giovani che anche se represse sono uscite fuori molto forti; i giovani in Uganda che preparano le prossime elezioni del 14 gennaio stanno concentrando il loro entusiasmo intorno al candidato giovane Bobi Wine alla presidenza, in un paese in cui il presidente è lo stesso dal 1986; in Ciad i giovani hanno costituito il gruppo politico “I trasformatori” che si riunisce intorno a un giovane molto capace, Succes Massra, che l’anno prossimo si presenta come candidato alle presidenziali contro il dittatore al potere che è lì da oltre 30 anni.

E ancora: in Algeria, i giovani hanno fondato il movimento non violento Hirak che chiede un cambio strutturale al potere, gli stessi lo scorso anno sono riusciti in una rivoluzione in Sudan che ha portato alla partenza del presidente al potere da oltre 30 anni. A questi si affiancano movimenti di donne che sempre più spesso si uniscono e dicono basta alla violenza contro di loro, notevolmente aumentata durante la pandemia del Covid.

Nigrizia sta preparando un dossier sul lavoro schiavo degli oltre 180mila braccianti africani che lavorano nelle nostre campagne in Italia, sottopagati e senza tutele. Cosa ne pensa dell’eterno slogan “Aiutateli a casa loro”?
Le persone straniere contribuiscono al 10% del Pil nazionale, nonostante la loro presenza sia intorno al 9% in termini numerici. Sono dati che dovrebbero farci riflettere. Lo slogan “Aiutateli a casa loro” è frutto di un linguaggio per populisti che non è degno della verità del caso.

Dovremmo piuttosto dire un’altra cosa: non massacriamoli a casa loro! E pensiamo anche agli accordi che come Paese continuiamo a fare: ad esempio, l’Italia è coinvolta nell’acquisto di un milione di ettari di terre, fenomeno di accaparramento sempre più forte, che include sempre più multinazionali italiane in questo processo di espropriare l’Africa delle sue ricchezze. Il continente africano non è povero: è impoverito. Nell’ombra, manovre molto silenziate tenute ai margini dell’informazione che ci dovrebbero far capire quale tipo di responsabilità abbiamo verso questi popoli che, poi, hanno tutto il diritto di migrare».

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