Non profit

Fisco, Terzo settore & Europa: facciamo chiarezza

Equivoci e paradossi nella comprensione delle norme fiscali: il punto sui rapporti tra Italia e Europa per valorizzare il ruolo del Terzo settore italiano. Stiamo pagando l'errore di pensare che gli enti non commerciali e gli enti non profit in senso ampio siano immuni per definizione dal vaglio delle regole UE. Con la riforma del Terzo settore si è scelta una strada diversa, quella della compatibilità con le regole europee. Il tempo dei proclami sul “fermate tutto perché si poteva fare meglio e di più” è ormai superato dal buon senso

di Gabriele Sepio

Con la legge di bilancio torna alla ribalta il tema fiscale degli enti del Terzo settore (ETS). Abbiamo già vissuto questa esperienza nello stesso periodo di un paio di anni fa quando fu abrogata la cosiddetta “tassa sulla bontà”. In sostanza era stata soppressa la norma che consente di abbattere della metà l’imposta sul reddito degli enti non profit. In quella occasione molte furono le proteste sollevate dal mondo associativo e del volontariato sostenute anche da una buona parte della politica e soprattutto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel discorso di fine anno fece un memorabile richiamo all’essenziale ruolo svolto dal Terzo settore. Da quella vicenda scaturirono due risultati. Uno piuttosto evidente, ovvero l’immediato ripristino della norma agevolativa. Ed un secondo risultato, meno palese del primo, ma di grande valenza sotto il profilo culturale. L’opinione pubblica, proprio quella dei non addetti ai lavori del sociale, iniziò a guardare da una diversa angolazione il Terzo settore e a conoscere le agevolazioni fiscali concesse per lo svolgimento delle tante attività di interesse generale. Il fisco spesso fa notizia per vicende negative. Grazie al Terzo settore abbiamo scoperto che può avere anche un volto buono. Finalmente, infatti, da quel momento si è iniziato a parlare di agevolazioni fiscali in una accezione più puntuale, ovvero come strumento per sostenere lo svolgimento delle attività di interesse generale. Una modalità attraverso cui lo Stato assegna in via indiretta delle risorse agli enti attraverso la mancata riscossione, in tutto o in parte, dei tributi dovuti. Fin qui nulla di particolarmente difficile da comprendere anche se si parla di fisco.

Il tema diventa leggermente più complesso quando occorre far capire che gli enti del Terzo settore si inseriscono in un tessuto economico e legislativo che prevede alcune regole puntuali. Siamo stati per lungo tempo abituati a norme fiscali destinate agli enti non profit senza un minimo coordinamento tra loro, talvolta contraddittorie e stratificate negli anni. Con disposizioni settoriali sparse nel sistema legislativo a volte in deroga, ma molto più spesso in spregio, a questo o quel principio nazionale o comunitario. Tutto ciò prima che intervenisse la riforma del Terzo settore. O meglio. Prima che nel sistema comparisse, con una propria autonoma dignità, la definizione di “ente del Terzo settore”. Perché non va mai dimenticato il punto di partenza. Prima del 2017 la fiscalità degli enti non profit era un ginepraio di disposizioni di dettaglio che il codice del Terzo settore ha armonizzato creando un vero e proprio sistema giuridico e tributario del Terzo settore. Un sistema, dunque, che supera i modelli precedenti basati su agevolazioni a pioggia mai notificate all’Unione Europea e che, come abbiamo visto, hanno avuto certamente l’effetto di rendere precaria la fiscalità degli enti prestando il fianco alle procedure di infrazione della UE.

Un esempio di tutto questo arriva proprio dalla Legge di Bilancio di quest’anno. La norma incriminata, infatti, non riguarda la riforma del Terzo settore, come erroneamente qualcuno potrebbe pensare, ma l’art. 4 del decreto IVA. Ovvero la disposizione che esclude dal campo di applicazione dell’imposta, considerandole come non commerciali, tutta una serie di entrate degli enti associativi (a prescindere dal fatto che si tratti o meno di enti del Terzo settore). Pensiamo, ad esempio, ai corrispettivi specifici e ai contributi supplementari ricevuti dai soci, associati o partecipanti per lo svolgimento delle attività istituzionali. Nel mirino della Commissione sono finite anche le somministrazioni di alimenti e bevande presenti in molte associazioni a corredo delle attività principali. La risposta alla procedura di infrazione da parte del Governo è arrivata, dunque, con la Legge di Bilancio. Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, la UE ha ritenuto le norme italiane in violazione della direttiva IVA (2006/112/CE) e, dunque, in contrasto con le regole della concorrenza e del mercato. Il risultato è stata la formulazione di un nuovo articolo, il 108 della Legge di Bilancio che attrae nel campo IVA, in particolare tra quelle c.d. “esenti”, tutte le operazioni sopra descritte. Ma cosa significa questo. Le associazioni potranno continuare a ricevere corrispettivi dai soci e continueranno a non richiedere l’IVA, ma trattandosi di operazioni rilevanti ai fini del tributo dovranno essere assoggettate a tutta una serie di obblighi formali. Solo per fare un esempio dovranno aprire una partita IVA, qualora non l’avessero già fatto, e scatterebbero una serie di obblighi come la fatturazione (elettronica), la registrazione, la liquidazione (eventuale) del tributo e la presentazione della dichiarazione IVA. Insomma comparirebbero una serie di adempimenti prima non previsti che oggettivamente appesantirebbero molto le attività degli enti. Appena apparsa la norma nella Legge di Bilancio anche in questa occasione, come avvenne in passato, si sono levate molte critiche e tanti sono stati gli emendamenti presentati al fine di sopprimere la disposizione. Anche il sottoscritto ha avanzato una serie di perplessità sulla formulazione della norma, che a mio avviso andrebbe riscritta tenendo conto della posizione della Commissione Europea e della necessità di non attrarre indistintamente nel campo IVA tutte le entrate provenienti dai soci di natura straordinaria rispetto alla quota ordinaria. Ma non è solo questo il punto. Questa volta, a differenza della “tassa sulla bontà”, la situazione è nettamente diversa e direi persino più preoccupante.

Il punto sulla situazione fiscale del Terzo settore
Provo a sintetizzare le ragioni di questa mia provocazione. Partiamo da ciò che emerge con maggiore evidenza dal dibattito che si è attivato in questi ultimi giorni. Esiste una sorprendente confusione tra regole nazionali e comunitarie. La procedura di infrazione su cui si basa la norma IVA contenuta nella Legge di Bilancio e che finirà per coinvolgere con adempimenti oggi non previsti migliaia di associazioni, è figlia di questa confusione. Ma soprattutto è figlia di una continua e ingiustificata sottovalutazione del ruolo della Commissione Europea rispetto alla vigilanza sulle regole della concorrenza e del mercato. Il risultato è che ci ritroviamo oggi a riconcorrere queste regole con modifiche legislative frettolose. L’errore è quello di pensare che gli enti non commerciali e gli enti non profit in senso ampio siano immuni per definizione dal vaglio delle regole UE. Un atteggiamento che ha prodotto un risultato evidente, ovvero una legislazione provvisoria, esposta alle procedure di infrazione con danni di non poco conto per gli enti, specie quelli con una struttura dimensionale più piccola, costretti ad inseguire le norme. Con la riforma del Terzo settore si è scelta una strada diversa, quella della compatibilità con le regole europee. Se non altro perché per la prima volta si è avuto il coraggio di introdurre un sistema omogeneo e generalizzato di regole fiscali per gli enti non profit abituati finora a norme di settore sparse nel sistema senza un quadro d’insieme. Certo seguire la strada delle regole e della compatibilità con i principi UE è più difficile e di sicuro meno popolare rispetto alla assegnazione di benefici a pioggia.

Troppo comodo pensare che si possano scrivere norme immaginando modelli in cui gli enti del Terzo settore possono svolgere qualsiasi attività, senza doversi porre alcun problema di compatibilità rispetto alle norme fiscali. Senza dovere, in altre parole, verificare se l’attività svolta si pone o meno in una logica di mercato. Se, dunque, l’ente effettui prestazioni o cessioni in cambio di corrispettivi veri e propri come un qualsiasi operatore commerciale nello svolgimento della propria attività istituzionale. Queste in estrema sintesi sono le condizioni richieste dall’Europa e che non interessano, dunque, tutti gli enti ma solamente quelli con caratteristiche ben definite .

Si tratta, a ben vedere, di regole che in molti casi andrebbero riaggiornate e rese meno vincolanti per chi, come il Terzo settore, svolge attività di interesse collettivo in assenza di lucro. In attesa che si prenda coscienza di questo a livello europeo è evidente che il tema va trattato a livello nazionale con una certa cautela e non certo frettolosamente nella legge di bilancio.

Ma come declinare allora i principi comunitari con le caratteristiche del sistema sociale italiano? Iniziamo dalle definizioni. L’Europa non pone una distinzione tra attività commerciali e non commerciali ma, cosa ben diversa, tra attività economiche e non economiche. La commercialità è solo un effetto rispetto a quest’ultimo inquadramento. Se non si prendono le mosse da queste considerazioni è facile cadere nell’equivoco. In sostanza gli enti non profit possono godere di specifiche agevolazioni e in alcuni casi di vere e proprie esenzioni, come già oggi previsto dal codice del Terzo settore, a patto che non violino le regole sulla concorrenza. Non a caso secondo la Corte di Giustizia “gli Stati membri sono liberi di decidere quali sono gli interessi della collettività che vogliono promuovere, concedendo vantaggi ad associazioni e fondazioni che perseguono in modo disinteressato fini legati a detti interessi”, tuttavia, ogni Paese può esercitare la propria competenza nel rispetto del diritto comunitario, osservando, in particolare, il principio di non discriminazione e la disciplina in materia di concorrenza (CGCE, 14 settembre 2006, C-386/04, Stauffer, in Raccolta, 2006, I-08203 ss., n. 39). Per avere una prova concreta rispetto all’applicazione di questi principi non occorre neanche andare troppo lontano. Molti ricorderanno la vicenda legata all’esenzione ICI/IMU per gli immobili destinati allo svolgimento di “attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”. L’esenzione era prevista originariamente “a prescindere dalla natura commerciale o meno” delle attività di destinazione dell’immobile. La formula della norma in sostanza non teneva conto in alcun modo della possibilità che qualche ente non profit potesse svolgere una vera e propria attività economica. Risultato. A seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea la norma fu riscritta e l’esenzione venne mantenuta purchè, citando la norma, le attività “non abbiano esclusivamente natura commerciale”. Il Dipartimento delle Finanze spiegò che questa natura non commerciale va interpretata nel senso che l’esenzione spetta per le attività “svolte per rispondere a bisogni socialmente rilevanti” e non rientranti “sfera di azione degli operatori privati commerciali”. Insomma anche in questo caso l’agevolazione fiscale finì per essere circoscritta a quelle attività non qualificabili come “attività economica” secondo quanto più volte affermato dalla Corte di Giustizia.


Lo scenario a breve e a lungo termine sulla fiscalità degli enti del Terzo settore
Quanto ho provato ad esaminare finora ci porta ad alcune inevitabili riflessioni di fondo. Non è necessario essere profondi conoscitori della materia fiscale per comprendere, semplicemente con il buon senso, che la costruzione di una legislazione tributaria, specie quando si tratta di enti non profit, non può prescindere anche dallo scenario europeo. Ed è altrettanto evidente, dalle vicende passate e presenti, che non è certo ignorando le regole del mercato comunitario che si costruiscono norme solide in grado di valorizzare il ruolo degli enti del Terzo settore. Questi ultimi hanno dimostrato, semmai ve ne fosse ulteriormente bisogno, una grande capacità di fornire risposte alle esigenze collettive nei momenti più difficili per il Paese. Meritano, dunque, risposte puntuali e soprattutto una legislazione stabile che possa garantire lo sviluppo di modelli organizzativi senza il rischio che possano essere affossati dall’ennesima procedura di infrazione. La costruzione di un modello fiscale di vantaggio in grado di favorire lo sviluppo delle attività degli enti del Terzo settore è possibile partendo dal presupposto, come oggi avviene nel codice del Terzo settore, che vi è compatibilità tra principi comunitari e valorizzazione delle attività di interesse generale. Queste ultime possono scontare, dunque, il beneficio della esenzione fiscale quando l’ente non svolge attività economica. Questo avviene per la maggior parte degli enti che non vendono beni o prestano servizi in cambio di un compenso. Ma l’esenzione fiscale scatta anche quando, ad esempio, il corrispettivo che si riceve per servizi o beni nell’ambito dell’attività istituzionale copre i costi o crea un utile esiguo, allo scopo di garantire un compenso adeguato per il servizio reso e permettere a più persone di beneficiare delle attività di interesse generale. Alle stesse condizioni e a maggior ragione l’attività economica si esclude anche quando un ente ha entrate stabili che provengono dal finanziamento pubblico o dai contributi degli associati (Sentenza CGUE, C-267/2008). Oppure quando si ricevono corrispettivi per una attività di ricerca scientifica e si decide di condividere pubblicamente i risultati senza perseguire alcun lucro. Insomma. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e l’evoluzione sul punto a livello europeo ci dice che ormai si va delineando sempre di più la consapevolezza che lo sviluppo dell’economia sociale e delle attività degli enti del Terzo settore passa anche per un allentamento delle maglie delle regole restrittive in materia di aiuti di stato e di tutela della concorrenza. Questo aspetto vale a maggior ragione per la fiscalità degli enti. Un tema destinato a mutare con lo sviluppo della società e dei suoi bisogni nel complessivo panorama europeo e non solo nazionale. Affinchè l’Italia possa svolgere un ruolo sul tema dell’economia sociale, cosa che sembra ancora piuttosto lontana leggendo la bozza del piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che vede l’imbarazzante assenza del Terzo settore, va, dunque, completato l’iter della riforma senza ulteriore indugio. La politica in questa fase può fare molto per sostenere la causa italiana e le richieste sulle misure fiscali a Bruxelles al fine di ottenerne il vaglio e mettere in sicurezza le norme dall’ennesima scure delle procedure di infrazione. Il sociale italiano insomma ora ha bisogno di consolidare i contenuti della riforma e di strutturare il modello del Terzo settore agli occhi dell’opinione pubblica, del mercato e delle istituzioni nazionali e locali facendo leva sul grande lavoro svolto anche nella fase pandemica. Il tempo dei proclami sul “fermate tutto perché si poteva fare meglio e di più” è ormai superato dal buon senso e ha perso evidentemente di ogni credibilità, soprattutto perché già esiste una legislazione, quella della riforma del Terzo settore, che aspetta solo di essere applicata e interpretata nella sua interezza per divenire veramente operativa. Con l’operatività, da qui al prossimo anno, del nuovo Registro Unico Nazionale, la pubblicazione di molti decreti attuativi e, da ultimo, il nulla osta da parte del Consiglio di Stato sul decreto relativo alle attività c.d. “diverse” (notizia importante annunciata dal ministro del Lavoro nel corso della giornata del volontariato e che sembra essere sfuggita ai piu), siamo entrati inesorabilmente nella fase decisiva della riforma che si completerà con l’approvazione delle ultime misure fiscali in attesa del vaglio UE. Sarà importante ora piu che mai l’apporto delle amministrazioni competenti per fornire tutti quei chiarimenti utili e necessari per guidare gli enti nelle proprie attività, come avviene, del resto, quando ci si trova di fronte a qualsiasi innovazione legislativa e culturale. Come avviene per tutte le leggi, anche il codice del Terzo settore per comprenderne la portata e eventuali integrazioni e migliorie ha bisogno di essere correttamente attuato e conosciuto nelle sue opportunità. Perchè si sa. Ogni riforma che porta innovazione per definizione fa paura, soprattutto alle piccole realtà che, spesso, hanno poca consuetudine ad interpretare puntualmente le norme. Per questo motivo serve grande maturità da parte di tutti e consapevolezza del percorso che abbiamo davanti.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.