Volontariato
La sfida delle baby gang alla comunità educante? Si chiama «verità»
A Napoli un ragazzino di 10 anni ha ferito una quindicenne con un coltello. «Vedo ragazzini che ti urlano in faccia tutto ciò che non gli è stato dato e che più vanno avanti più gli viene negato», racconta il referente dei Punti Luce della città, gli spazi ad alta intensità educativa aperti da Save the Children. «Però i ragazzi capiscono se l’interesse nei loro confronti è momentaneo o se c'è verità»
«A me è capitato spesso di rivolgere lo sguardo ai ragazzini che tutti bollano come “i peggiori”: la scuola, gli adulti, la società perbene… Hanno subito deprivazioni fin da bambini, sono ragazzini che a 15 anni sanno più di me quanta durezza la vita può riservare. Vedo ragazzini che ti urlano in faccia tutto ciò che non gli è stato dato e che più vanno avanti più gli viene negato, a cominciare da attenzione e ascolto. Però ci vuole verità nell’ascoltarli. Occorre sapersi calare dentro il modo in cui loro guardano la vita: perché sono violento, perché grido, perché ho quell’apatia che gli fa rispondere “niente” a chi gli chiede “da grande che vuoi fare?”. Non lo sanno. Ma se non ho avuto qualcuno che mi ha fatto guardare più lontano rispetto alla casa e alla strada, se non ho avuto l’opportunità di fare una esperienza diversa, non riesco nemmeno a immaginarlo». Luigi Malcangi è referente territoriale per la Campania di Save the Children, che proprio in Campania ha il numero più alto di Punti Luce. I Punti Luce sono spazi ad alta intensità educativa aperti proprio nei contesti più degradati e fragili, là dove più alta è la povertà educativa: l'azione concreta per combattere quella povertà educativa che – seppur meno visibile di quella economica – tiene fermi più di 1 milione di bambini in Italia ai blocchi di partenza. Il programma è stato avviato nel 2014, quando per prima Save the Children – elaborando l’indice di povertà educativa – accese i riflettori sul tema. Oggi a Napoli c’è un Punto Luce alla Sanità, uno a Barra (in foto) e uno a Chiaiano e a dicembre ha aperto anche un Punto Luce a Casal di Principe, dentro un bene confiscato alla criminalità. Negli anni nei primi tre spazi sono stati agganciati almeno mille ragazzi, con una settantina di partecipanti alle attività quotidiane per ogni centro. A Casal di Principe ci sono già 150 ragazzini coinvolti.
L’esperienza dei Punti Luce del napoletano, Malcangi me l’ha raccontata una decina di giorni fa, in una riflessione su quanto i bambini e i giovani del Sud dell'Italia vivano oggi in una condizione di deprivazione, con un divario fra territori che si va allargando anziché ricomporsi, ma anche con un fermento di idee e buone pratiche. Oggi le sue parole possono aiutarci a rileggere l’ultimo episodio di cronaca, che sabato a Bagnoli ha visto coltelli in mano a ragazzini fra i 10 e i 14 anni. Fra chi frequenta i Punti Luce, alcuni conoscono i ragazzi che nelle scorse settimane sono stati coinvolti negli episodi delle baby gang e di quei fatti, racconta Malcangi, si è parlato più volte: «La cosa che viene fuori spesso è che gli episodi arrivati ai giornali e alla cronaca sono quelli più drammatici, ma che episodi del genere sono frequenti seppur meno tragici. Agli occhi del ragazzo lavorare sull’onda dell’emergenza non suona come “vero”. Se ci occupiamo di questo tema solo quado c’è l’emergenza o il fatto eclatante, loro se ne accorgono e dal momento che ne hanno viste tante sanno che presto i grandi torneranno a non occuparsene. Su queste cose non serve tanto spingere sull’acceleratore nell’emergenza quanto tenere nella durata, nel ritornarci continuamente nel tempo… Allora i ragazzi capiscono che l’interesse nei loro confronti non è momentaneo e vedono la verità dell’azione educativa. Se vogliamo incidere significativamente ci vuole tempo e lavoro costante».
La continuità è proprio il punto di forza dei Punti Luce e la precondizione per qualsiasi azione che voglia avere successo nel tentativo di ribaltare la realtà di un Paese che sta togliendo futuro ai suoi figli. «La Campania e il Sud sono sempre stati attraversati da programmi che riguardavano l’educazione, la dispersione scolastica, lo sport, spesso con ritardi nei pagamenti nelle agenzie educative, la verità è che è necessaria una discontinuità rispetto a questo. Occorre continuità, se la scuola dura dai 6 ai 16 anni, il percorso educativo extrascolastico deve avere la medesima durata. E spesso siamo in ritardo, perché un conto è lavorare su un piccolo, altro è provare a decostruire quel che è sedimentato in 14 anni di vita: decostruire perché un ragazzo di certi territori periferici deprivati ha accumulato nel tempo tante porte chiuse in faccia, tante persone che lo hanno etichettato e bollato come incapace, inadatto alla scuola… L’altro elemento che ci contraddistingue è capacità di fare rete, a cominciare dalla scuola che è dove i ragazzini sono o dovrebbero essere, ragionando insieme su quali cambiamenti nel territorio vogliamo raggiungere in 5/6 anni. Non ha senso aprire un centro educativo e voler invertire la tendenza pensando di essere autosufficienti, è una partita che dopo un anno al massimo sarebbe persa».
Il Punto Luce di Barra e quello di Chiaiano stanno dentro una scuola. Questo, spiega Malcangi, potenzia l’immagine scuola, che diventa il luogo delle opportunità educative al cubo. A scuola i ragazzi fanno le lezioni e poi, il pomeriggio, giochi, laboratori d’arte, giocoleria, trampoli e tessuti, parkour. Sì, parkour, perché «essere un presidio educativo significa che tutto è uno strumento per palare con i ragazzi, tutto serve per costruire un pezzetto di percorso. L’attività attrattiva è un modo per agganciarli», afferma Malcangi. Il parkour così, quello spostarsi nello spazio minimizzando lo sforzo e mantenendo l’equilibrio, diventa un esercizio di lettura dello spazio e degli ostacoli, ma anche una metafora dello sfruttare l’ostacolo come punto di appoggio: «pedagogicamente stai insegnano ai ragazzi che in un territorio pieno di insidie gli ostacoli possono essere trasformati in risorsa. È fondamentale che chi lavora con i ragazzi il pomeriggio riesca ad avere momenti di confronto con i docenti, perché così l’insegnante e l’educatore possono restituirsi l’uno l’altro come si comporta il ragazzo in setting diversi, oltre che consentire uno scambio anche sulla famiglia, che spesso è il punto nevralgico su cui lavorare per vedere l’uscita da tunnel da percorso di povertà economica ed educativa. A volte gli educatori vanno in classe la mattina a fare attività, questo far vedere che c’è un’alleanza». Il termine ormai diffuso per identificare questa alleanza forte e necessaria è “comunità educante”: «un termine forse inflazionato e una realtà che – dove esiste concretamente – è faticosissima, perché far convergere tanti attori così diversi su una condivisione di obiettivi e metodologie è uno sforzo che significa giornate di incontro e dialogo. Però funziona ed è un grande salto di qualità per l'intervento sul singolo ragazzo».
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