Cultura

La cultura? Un driver per il welfare

È (o potrebbe essere) un formidabile condensatore di coesione sociale perché da un evento, uno scavo, una performance si possono innescare processi di costruzione di comunità, cambiando le regole d’ingaggio in senso più aperto e inclusivo

di Flaviano Zandonai

Fermi tutti. Prima che la melassa della narrazione sulla “grande bellezza” del nostro patrimonio culturale ci sommerga solidificandoci in spettatori contemplativi, proviamo a capire cosa farne, a focalizzare il “ritorno sull’investimento”.

Perché se di patrimonio si tratta, allora va non solo preservato ma incrementato e reinvestito. Certo nell’anno appena passato abbiamo ben capito quale valore se ne può estrarre: basta guardare ai dati sugli ingressi ai musei, ma a ben guardare è un modello in piena crisi da successo. Perché se la lunghezza delle code è inversamente proporzionale alla qualità dell’esperienza allora abbiamo un problema grande da affrontare, pena il rischio di trasformarci (definitivamente) in un parco divertimenti dove il tipico, il locale, l’eccellenza sono dimensioni soggette a una paradossale inversione dei fini: da elementi di peculiarità e di “verità” dell’offerta a rappresentazione sempre più “plastificata” di una domanda segmentata in senso industriale.

E questo con riflessi negativi non solo in sede di conservazione e di gestione dei beni culturali in sé, ma di qualità della loro fruizione. Il famoso “esperienziale” che oggi tutti cercano di incorporare nelle catene di produzione del valore. Non solo in nicchie culturali e localizzate a loro modo “esclusive”, ma nella value chian globale, dove, come argomentano Calenda e Bentivogli nel loro articolo/manifesto apparso qualche giorno fa sul Sole 24 Ore, le imprese (anche a base culturale) del tanto decantato “made in Italy” sono assenti e quindi ovviamente non in grado di modificarne la struttura.

Dunque come se ne esce? Una strada, tutto sommato ben tracciata ma ancora poco percorsa, consiste nel ricomporre la dimensione culturale e come innovazione del welfare, mutando a tal fine sia i due termini della questione (che cos’è cultura e cosa significa protezione sociale) che le loro connessioni. La cultura è (o potrebbe essere) un formidabile condensatore di coesione sociale perché da un evento, uno scavo, una performance si possono innescare processi di costruzione di comunità, cambiando le regole d’ingaggio in senso più aperto e inclusivo. Inoltre la cultura svolge (o può svolgere) un ruolo disruptive rispetto a modelli di servizio sociale, sanitario, educativo spesso vittime di routine burocratiche che ne minano l’efficacia rispetto a un quadro di bisogni non solo ampliato ma fortemente mutato al suo interno.

Le orecchie già fischiano pensando a due possibili critiche rispetto alla proposta al nuovo governo: formulare e implementare un grande piano nazionale di welfare culturale intergenerazionale e intersettoriale. La prima: il rischio di annacquare ambiti diversi, in particolare per quanto riguarda le competenze degli operatori del settore, quelli che Franco Battiato qualche anno fa chiamava “gli addetti alla cultura” (e al welfare potremmo aggiungere). La seconda: il tentativo, attraverso questa misura, di introdurre una strisciante spending review. Con la cultura chiamata a coprire le falle del welfare e viceversa, in un gioco al ribasso da economia low cost.

Se l’udito non mi inganna provo a rispondere con alcune proposte. La prima sfida sottende una rivoluzione dei modelli di servizio che si definiscono “di pubblica utilità” e delle loro economie, uscendo da una logica prestazionale iper specialistica ed educando invece competenze orizzontali e soft vocate al community building e alla coproduzione. Ecco quindi che è necessaria una revisione profonda della formazione professionale e dei contratti di lavoro per immettere (o rigenerare) le competenze imprenditive di una nuova generazione di operatori dell’esperienziale: capaci di fare comunità amplificando le loro capacità connettive nei rapporti face to face, nei contesti digitali e tra locale e globale.

La seconda sfida richiede invece un passaggio, altrettanto epocale, nell’impostazione dell’economia pubblica passando dalla sola redistribuzione centralizzata (e poco conta che il centro sia rappresentato dalla capitale o da un piccolo comune) a una logica di investimento orientato al pay for success, attingendo a una platea composta non solo di attori istituzionali da ricompensare con un qualche “bonus” fiscale, ma una più ampia crowd attratta da nuovi modelli di fruizione, consumo e ben-vivere. In sintesi l’impatto sociale che fa da “pesce pilota” per l’allocazione di risorse che si sanno, almeno in parte, rigenerare. Un po’ come il patrimonio culturale e di relazioni di cura che rappresenta il principale asset di un paese, il nostro, che allora sì potremmo definire, senza retorica, straordinario.

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