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Brescia: bombe carta contro il disagio sociale
Bombe carta contro gli sfrattati e raid incendiari contro il campo nomadi: episodi inquietanti scuotono la città lombarda. Ma devono interrogare il Paese: atti isolati o l’avanguardia di un collasso prossimo-venturo?
di Marco Dotti
Due bombe carta, auto e furgoni dati alle fiamme. Succede a Brescia. Nella notte tra sabato e domenica via Gatti è stata scossa da quello che più passano le ore e più si delinea come un raid ben pianificato.
Due bombe carta – per pura fortuna, nessun ferito – sono state deliberatamente lanciate contro le casette che nel 2013 servivano da alloggio per gli operai della metropolitana e oggi ospitano 65 persone – gran parte italiani – che, ridotte in stato di necessità e bisogno, ne hanno preso possesso.
Dai primi riscontri, si sarebbe trattato di due ordigni artigianali, fatti esplodere a qualche ora di distanza.
Il primo ordigno, esploso attorno alle 22,30, è stato lanciato dalla strada. Per la seconda bomba gli attentatori hanno atteso che tornasse la calma e, come riporta “Il Giornale di Brescia”, dopo essere entrati nella prima casetta hanno «lanciato una seconda bomba che ha sfondato il pavimento, generando un buco di circa dieci centimetri di diametro, staccato dal soffitto un neon e scoperchiato i cavi della corrente elettrica».
«Siamo povera gente ma abbiamo dignità». Così racconta una spaventata sessantacinquenne a Irene Panighetti, sul “Bresciaoggi” e spiega: «sono uscita a vedere cosa stava succedendo e ho visto un’auto in fuga».
Poche ore dopo, in un’altra via della città (via Orzinuovi), le telecamere riprendevano un’ombra nera intenta – lo si sarebbe capito a breve – dar fuoco ad auto e furgoni all’ingresso del campo nomadi dove vivono 150 sinti (tutti di cittadinanza italiana, fra i quali 50 bambini).
Sui furgoni, usati per lavori edili, risparmiati dalle fiamme sono stati trovati stracci imbevuti di benzina usati come inneschi.
Due fatti forse senza connessione, ma indicativi del clima che si respira in una città comunque in ripresa, ben amministrata, capace di integrare e accogliere.
Il problema, ci spiega una voce delle istituzioni che vuole restare anonima, è che «tra il giorno e la notte in questa città cambiano molte cose. Cambia la geografia, cambiano i suoi confini e la violenza trova un habitat in cui attecchire».
Forse su questa violenza e su questa doppia geografia – al netto delle retoriche elettorali – dobbiamo davvero fermarci. E iniziare a riflettere. se non vogliamo che la brutalità abbia l’ultima – davvero l’ultima – parola sulla sofferenza sociale e sul disagio.
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