Cultura
La partecipazione sospesa ai tempi del Coronavirus
L'ex presidente dell'Associazione Italiana della Partecipazione Pubblica (AIP2) con Chiara Pignaris, attuale presidente AIP2, ha curato il volume "Coltivare Partecipazione” che mette al centro le esperienze e i processi partecipativi partendo da alcune domande sui rischi che la condizione "total digital" attuale porta con sé
Che fine fa la partecipazione ai tempi del Coronavirus, con i suoi lockdown, le sue restrizioni, i divieti di assembramento e il distanziamento sociale? Nel pieno rispetto delle regole che cambiano Dpcm dopo Dpcm, possiamo davvero sopportare in silenzio le limitazioni alla partecipazione trasferendo i processi partecipativi nella dimensione “total digital”, senza impoverirne la dinamica profonda e l’efficacia? Sono queste le domande che tormentano da mesi chi si occupa di partecipazione pubblica. E, nel cuore della seconda ondata, senza ancora nessuna certezza sui tempi di ritorno a una vita socialmente agibile, sono domande con cui non possiamo non fare i conti.
Siamo in autunno avanzato, quando le piante si spogliano del superfluo, e noi tutti, nel contesto pandemico, ci troviamo costretti a tornare dentro di noi, capire chi siamo, dove siamo e in quali tempi viviamo. Durante il primo lockdown abbiamo riscoperto le nostre priorità: l’abbraccio dei nostri cari; il sorriso della bocca non solo degli occhi; la scuola come comunità; l’interdipendenza di salute, economia e arte; la necessità di coniugarle insieme. Ma solo se teniamo care queste priorità, troveremo soluzioni oltre quelle abbozzate da maggio a settembre: l’economia orientata ad una finta ripresa, la scuola orientata solo alla distanza fra banchi e non ad una riflessione sulle differenze di esigenze di bambini, ragazzi, adolescenti. Dovremo riflettere sul ruolo della scuola preparando anche corsi di formazione di docenti capaci di mettere la persona al centro in contesti sia di vicinanza che di distanza. ll digitale, la cui presenza aveva già radicalmente cambiato la trasmissione dei saperi, non va considerato solo come rifugio quando non si può lavorare in classe. L’insegnante dovrà rivisitare il suo ruolo per fare del digitale un alleato, capendo come creare le condizioni di apprendimento in contesti nuovi, potenziando in modo diverso l’indipendenza del suo studente e la sua capacità di lavorare in gruppo.
Questo non sarà facile dato che questa capacità spesso sfugge a noi adulti in quasi tutte le nostre organizzazioni: sopportiamo riunioni poco fruttuose, assopiamo i conflitti invece di gestirli creativamente. Dobbiamo usare questo nuovo tempo di restrizioni e di “partecipazione sospesa” per riflettere su come rendere le nostre istituzioni più dialogiche, inclusive, capaci di valorizzare una pluralità di visioni e di persone. Uno dei piccoli/ grandi modi di promuovere tale cambiamento sarà quello di osservare come ascoltiamo noi stessi e gli altri, come interagiamo, chi includiamo, chi escludiamo. Potremmo anche fare incursioni oltre i nostri settori disciplinari, organizzando chat fra competenze: un ginecologo, pediatra, osteopata, medico omeopatico che discutono su come affrontare il caso di un neonato; un geologo, agronomo, agricoltore, cuoco (non chef stellato), abitante che descrivono lo stesso pezzo di terra. Ragionando in questi termini, cominceremo a creare istituzioni più esplorative.
Con l’attuale pandemia tutti i nodi problematici del Paese stanno venendo al pettine, e ci rendiamo conto che bisognerà trovare nuovi modi per scioglierli, trasformandoli in un tessuto diverso. Uno dei nodi più deludenti è lo spettacolo di un sistema politico dove le istituzioni preferiscono giocare a trovarsi senza cerino in mano, invece di affrontare i problemi attraverso serrati confronti esplorativi. La maggior parte dei cittadini cerca di osservare delle regole non sempre comprensibili, così dimostrando l’inesattezza dello stereotipo di un paese anarchico, restio alle regole. Allo stesso tempo gli stessi cittadini soffrono dell’assenza di occasioni per contribuire effettivamente alla vita politica del paese. Non bastano le elezioni per permettere ai vari portatori di interesse e ai cittadini di dibattere i temi: salute, casa, fisco, formazione; servono altri strumenti di coinvolgimento. Oggigiorno ce ne sono tanti, basta volerli usare. Le assemblee cittadine (Citizens’ Assemblies) ne sono un esempio e hanno il vantaggio di creare un pubblico meglio informato. Nelle scuole, il problema è identico. Vengono trascurati i suggerimenti del pedagogo Francesco Tonucci di includere i ragazzi nelle decisioni sul distanziamento sociale e di mandare qualcuno di loro a fare da consulente al sindaco.
Non dobbiamo lasciare che le pratiche di partecipazione siano sospese proprio adesso, in nome del consueto alibi di ogni democrazia incompleta: “ci sono altre priorità”. I processi partecipativi sarebbero essenziali, ora più che mai, ovunque. È necessario lavorare con i bisturi nei contesti locali non fidandoci di soluzioni grossolane normative applicate all’intero Paese: Coronavirus dixit. Per fare questo ci vogliono trasparenza, inclusione, rispetto, responsabilità. Purtroppo nel lockdown è difficile curare il salto di qualità verso processi partecipativi come “giochi a somma positiva”, che vadano oltre la semplice consultazione, raggiungendo quelli che vengono chiamati gli ultimi tre gradini della scala di partecipazione: coinvolgimento, cooperazione e capacitazione. Il virtuale ci aiuta a rimanere connessi, ma rende più difficile attivare il confronto di persona per sentirci parte di una ricerca esplorativa insieme. Ma la posta in gioco è altissima. Non possiamo abbandonare proprio adesso la speranza di contribuire ad una democrazia diversa – più dialogica, distribuita, vitale.
*presidente Associazione Italiana della Partecipazione Pubblica (AIP2) 2016-2019; curatrice “La Nave dei Folli: rotte nuove nella formazione universitaria” Pisa University Press, 2013, e curatrice di “Coltivare Partecipazione” insieme a Chiara Pignaris, attuale presidente AIP2, edizioni la meridiana, 2020
In apertura photo by Luke Richardson on Unsplash
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.