Cultura

Sanremo visto dal divano

Un'analisi semi seria della prima serata della kermesse canora. Impressioni e ragionamenti sul più importante programma televisivo italiano, che qualche volta propone anche un po' di musica

di Lorenzo Maria Alvaro

La prima serata del Festival è andata. E una cosa positiva c’è, al netto delle solite critiche e ironie che sui social si sono sprecate: Baglioni, alla sua prima da direttore artistico sottrae la musica dalla logica del talent e della competizione in stile calcistico.

Eliminare le eliminazioni è stata una grande idea. Il problema piuttosto è che questa è anche l’unica cosa positiva di questo Sanremo, almeno stando alla prima serata.

Il prodotto televisivo, com’è normale per il tipo di evento ed essendo ormai nell’era di XFactor, risulta polveroso e stantio. Ma eravamo preparati.

Trattare del Festival della Canzone Italiana significa occuparsi di qualcosa che va oltre la musica (quando c’è) e che ha più a che fare con il nazional popolare. “Non c’è niente che sia per sempre” recita una celebre canzone. Una grande verità che però non vale per Sanremo. Sanremo è per sempre. E dalla fine della leva militare obbligatoria e di Carosello è l’unico momento comune di tutti gli italiani. L’unica tradizione che ci unisce tutti. D'altronde si sa che famiglia e scuola non esistono più. Dunque sotto con le prime impressioni, rigorosamente in ordine sparso.

Partiamo dai conduttori. A salvarsi del trio è solo Pierfrancesco Favino che, se paragonato a Cattelan (ormai modello indiscusso di conduzione televisiva) fa una magra figura. Però è un attore prestato alla tv, risulta simpatico e naturale e fa il valletto di un programma cui ti devi adeguare. Non sarà mai il Festival a cambiare, sei tu che cambi. Quindi la sua è una buona prestazione.

Il vero buco nero è Michelle Hunziker. Non per la scollatura del primo vestito che indossa, purtroppo. È ossessionata dai propri parenti che, ci ricorda per tutto il tempo, non vede da due settimane. Conosco persone che pagherebbero per poter stare fuori casa la metà di quel tempo. Lei invece per non vedere il marito qualche giorno, tra una vacanza alle Maldive e una sfilata a Pitti Uomo (almeno stando ai suoi social), prende pure un cachet, per così dire, “generoso”. A pensarci bene per sostenere l’esame di Stato dell’ordine dei giornalisti non ho visto mia figlia per più di due settimane e ho anche effettivamente pagato. Quindi lei saluta il marito, saluta la figlia, saluta il ragazzo della figlia e a me sale l’astio. Poi il colpo della serata: la bionda, che ha lasciato tutta la verve comica a Zelig (evidentemente era farina del sacco di Bisio), per dimostrare come il Festival si sia svecchiato e sia moderno sottolinea entusiasta che ha dei profili social tutti suoi. Poi immancabilmente tira in ballo un parente, la mamma, che a 70 anni naviga allegramente tra Facebook e Twitter. Quindi per lei il Festival è una simpatica vecchietta. Prima gaffe. Non paga si rivolge ad una povera ospite in sala chiedendole se anche lei abbia dei social. Seconda gaffe: riesce a indicare come modello di senilità una povera e ignara 50enne. Il tutto in meno di due minuti. Niente male. Ma non è tutto perché Michelle chiude i suoi 2 minuti di gloria col botto e riesce ad estorcere alla malcapitata il nome del profilo Instagram. Morale: Rosa da Sanremo (questo è il nome della signora) nel giro di una serata rivaleggia con Chiara Ferragni con oltre 17mila follower. Alla signora, va detto, diamo subito il premio morale della serata: poco dopo ha reso il proprio profilo privato. La signora Rosa giustamente si sarà chiesta per quale motivo 17mila sconosciuti dovrebbero vedere le foto del suo ragù e dei suoi nipoti. Noi invece ci limitiamo a prendere atto che quei 17mila teledipendenti probabilmente il 4 marzo voteranno come noi.


Il capitolo Claudio Baglioni è complicato. Sceglie un presenzialismo sfrenato. E si salva. No, non ha tempi comici, non sa condurre, non ha nessuna dote particolare ed è posticcio. Ma non appena i concorrenti, scelti da lui, calcano il palcoscenico magicamente non sembra più così vecchio. Volpone. Adesso una mezza idea di come si sia scelto il parterre ce l’abbiamo.

E qui dobbiamo necessariamente aprire un capitolo serio. Su questo non riesco a fare ironia, ad essere cinico né scanzonato. La senilità andrebbe tutelata. L’età anziana viaggia verso una linea di confine. Prima di quel punto i vecchini risultano dolci e teneri. Dopo il rischio è l’effetto foto delle modelle anoressiche di Oliviero Toscani. Orrore e pietà. Se Ornella Vanoni, Roby Facchinetti, Fogli & co. non si rendono conto delle proprie condizioni qualcuno dovrebbe proteggerli. Nessuno di noi vorrebbe vedere la propria nonnina (magari gonfia di botox e silicone) deambulare a fatica con sguardo perso in eurovisione. Titolo del capitolo: “Imparare ad amarsi”.

Chiuso il momento sociale e di tutela della terza età, andando in campo musicale, da sottolineare ci sono certamente alcune scelte e alcuni brani.

In primo luogo il format Pooh a rate è piacevole come un mutuo. Anche perché il problema è che i Pooh sono Pooh anche singolarmente. Mi spiego meglio: Red Canzian e Roby Facchinetti insieme suonano le canzoni dei Pooh. Il problema è che anche da soli suonano le canzoni dei Pooh. Il che significa che sul palco c’è stato l’effetto eco. Canzoni dei Pooh, canzoni dei Pooh a perdita d’occhio.

Caso simile è quello dei Decibel. O meglio, nessuno ha capito cosa cambi tra Ruggeri che canta da solo e Ruggeri che canta con i Decibel.

Un paragrafo se lo merita anche il mitologico Giovanni Caccamo. Lui è una sorta di supereroe della Mervel. E il suo super potere è l’Alzheimer. No, non mi riferisco ai concorrenti, ho detto che sull'età non si scherza. Mi riferisco a noi. Caccamo induce nello spettatore un colpo di Alzheimer momentaneo ogni volta che canta. Nessuno sa chi sia, nessuno ne ricorda fattezze e produzione musicale. Ma è sempre lì. Probabilmente anche i direttori artistici dimenticano di averlo invitato e lo richiamano ad ogni edizione.

Ma certamente le luci della ribalta vanno a Ermal Meta e Fabrizio Moro. In realtà sarebbe tutto scontato. Moro fa il Moro e si porta anche Meta. Identifica un tema sociale di un qualche interesse (la mafia, il femminicidio, le emorroidi…). Non è importante di che si parla. L’importante è che sembri che a lui interessi la cosa. Ci scrive una canzone mediocre e la canta con trasporto. Per qualche mese sarà il cantante impegnato. Che poi si sia impegnato a sembrare impegnato è un altro discorso. Però questa volta Moro e il suo valletto Meta si sono superati. Sembra infatti che il pezzo sia un plagio. O un autoplagio. Non entriamo nei dettagli. La notizia è un’altra: noi si pensava che Meta e Moro non fossero in grado di scrivere una canzone in due. Oggi scopriamo che non sono in grado neanche di copiarla.

Elio e le Storie Tese che io non ho mai amato sono dileggiati e insolentiti in rete. E mi dispiace. È vero la canzone non è un granché, ma non è facile smettere in tempo. E comunque non è neanche un disastro. Non si fischia la Terra dei Cachi. Mai.

Fino a ieri Mario Biondi era il Barry White italiano. Poi ha cantato in italiano e abbiamo scoperto che è solo un lungagnone pelato con la raucedine.

Ci sarebbe da dire anche de Lo Stato Sociale (la scelta di portare proprio una nonna sul palco è stata davvero crudele e gratuita) o dell’inedito di Lucio Dalla cantato da Ron. Oppure di Fiorello e di come funzioni in ogni occasione. Di Laura Pausini e del fatto che pensavamo di averla scampata salvo poi scoprire che ce la ritroveremo sabato. Mai nessuno aveva tifato con tanto trasporto per una ricaduta di laringite. Ma ci sarà tempo.

Per chiudere, chi è stato il migliore? Purtroppo temo di dover rispondere i The Kolors. Nonostante il nome del cantante e quello della canzone. Stash canta Frida fa veramente venire i brividi.

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.