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Save the Children: «Sotto attacco perché ci battiamo per l’istruzione delle bambine»

Intervista a Valerio Neri, direttore generale dell’organizzazione, secondo cui tra i motivi dell’attacco terroristico alla sede di Jalalabad, in Afghanistan c’è anche il lavoro portato avanti dall’Ong per l’accesso all’istruzione delle bambine: « Nel nostro stesso palazzo c’è anche un ufficio governativo che si occupava di emancipazione femminile»

di Ottavia Spaggiari

È salito a quattro vittime il bilancio dell’attacco terroristico alla sede di Save the Children a Jalalabad, in Afghanistan, dove un gruppo affiliato all’Isis ha tenuto sotto scacco l’edificio dove si trovava l’ufficio dell’organizzazione per oltre dieci ore. Un’azione omicida ponderata, rivolta proprio alle Ong, come spiega Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia.

Chi sono le persone che hanno perso la vita nell’attacco di mercoledì?
Sono tutti operatori afghani. L’ultima vittima è stata ritrovata questa mattina sul tetto del palazzo. Un ragazzo giovanissimo, di appena vent’anni. Probabilmente aveva cercato di mettersi al riparo ma non ce l’ha fatta. L’attacco è durato moltissimo, dieci ore. Nel nostro ufficio ci sono circa quaranta persone, all’inizio avevamo temuto che non fossero riuscite a mettersi in salvo.

Qual è la situazione nel Paese al momento?
Durissima. Molto tesa, in rapidissima e costante evoluzione, in particolare a Jalalabad. Si tratta di una zona molto remota, al confine con il Pakistan, che quindi è maggiormente esposta a rischi e all’instabilità e agli obiettivi di alcuni gruppi estremisti.. Purtroppo, dopo quello che è successo, siamo stati costretti a chiudere il nostro ufficio e sospendere il programma per un periodo indefinito. Il che comporterà un peggioramento delle condizioni della popolazione locale.


Come umanitari, noi aiutiamo tutti, indipendentemente dall’affiliazione politica o religiosa. In molti casi questo ci ripara dagli attacchi, perché viene riconosciuta l’utilità del nostro ruolo.

Valerio Neri

Che tipo di attività stavate portando avanti a Jalalabad?
È un programma di educazione, ma in questi contesti non si tratta solo di insegnare ai bambini a leggere e scrivere. Intorno alle attività scolastiche vengono impostate delle iniziative di assistenza sanitaria e di sostegno all’alimentazione che coinvolgono anche le famiglie, si tratta di un’attività che va molto oltre l’accesso all’istruzione.
In particolare poi, ci concentriamo sull’educazione delle bambine. Portiamo avanti un lavoro con la comunità locale per ottenere che anche le figlie femmine vengano mandate a scuola, in un contesto in cui la questione di genere è ancora totalmente aperta, in cui ai maschi e alle femmine non viene permesso di stare negli stessi luoghi. Al contrario per alcuni alle bambine non dovrebbe essere permesso di studiare, si vorrebbero lasciare le donne nell’ignoranza più totale. Non è un caso che nello stesso palazzo in cui ci trovavamo noi, ci fosse anche un ufficio governativo che si occupava di emancipazione femminile.

Avete già un’idea di quando riaprirete l’ufficio?
Non abbiamo ancora notizie ufficiali, al momento posso dare solo una mia interpretazione personale e io penso che non sarà semplice riprendere i lavori in questa zona del Paese. Significherebbe tornare ad esporre il personale ad altri attacchi. Sono invece più ottimista relativamente all’apertura di un programma in altre zone più lontane.

Attacchi di questo tipo, soprattutto in zone così complicate, sono molto difficili da prevedere. Esistono però degli strumenti per ridurre i rischi?
È molto difficile.Oggettivamente si tratta di un pericolo difficilmente azzerabile, figuriamoci in Afghanistan, dove esiste una condizione di fragilità politico sociale.
Come umanitari, noi aiutiamo tutti, indipendentemente dall’affiliazione politica o religiosa. In molti casi questo ci ripara dagli attacchi, perché viene riconosciuta l’utilità del nostro ruolo. Con la nostra presenza assistiamo la popolazione ma dove c'è estremismo, anche l'assistenza umanitaria più basilare è a rischio. Noi, così come i colleghi di Emergency, e tutti gli operatori che lavorano sotto sigle diverse siamo un bersaglio chiaro per i terroristi. Anche se tra loro sono contrapposti, siamo stati attaccati sia dai talebani in passato e che da un gruppo affiliato all’Isis, oggi.

Cosa spinge gli operatori a continuare ad operare in contesti così difficili?
È lo spirito del cooperante, di chi lavora nell’umanitario. Si è pronti ad affrontare dei rischi. A volte di stratta della malaria, del dengue o di altre malattie, a volte della criminalità locale, altre volte invece il rischio è il terrorismo. Una cosa è certa: stiamo fermi e ognuno rimane a casa propria, l’umanitario è morto.
Gli operatori hanno un grande coraggio. In questo caso poi, i colleghi erano tutte persone del luogo, che oltre all’impegno umanitario sono spinte anche da un fortissimo impegno civico e civile. Si tratta di persone per cui quella è la vita quotidiana, non hanno la scelta di ritornare in Europa o negli Stati Uniti. Non hanno altri luoghi in cui ripararsi. Il loro è un doppio coraggio. Lavorano ogni giorno, con rischi enormi per provare a migliorare la condizione del loro Paese.

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