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Giovani, la sfida dell’anno
Mai una generazione aveva calamitato così tante definizioni: generazione A, generazione Z, generazione App, generazione What e via di questo passo. Nessuna però centra l'obiettivo: il comun denominatore dei giovani di oggi è la costante ricerca di significato. Restituire la piena cittadinanza civile e sociale agli under 35 à la sfida che l'Italia deve vincere per conquistarsi un futuro. Ed è la sfida a cui abbiamo voluto dedicare il primo numero dell'anno di VITA
di Marco Dotti
Millennials, bamboccioni, sfiorati, sdraiati, digital natives, generazione A, generazione X, generazione Z, generazione app, generazione what, neets: mai una generazione ha avuto tante etichette. Mai tante parole vuote, per indicare una cosa sola: i giovani. Sfuggente ma suggestiva, la categoria “giovani” è arrivata al centro del dibattito e dell’attenzione pubblica nel secondo dopoguerra, con la baby boomers generation, ragazze e ragazzi nati tra il 1946 e il 1964, e da lì ha attraversato le generazioni. Quante generazioni incrociamo nella nostra vita? Quante ne attraversiamo? Soprattutto: che cos’è una generazione? In termini anagrafici, le generazioni cambiano di continuo: una si succede all'altra e là dove il flusso di individui non si interrompe basta ad assicurare il rinnovamento anagrafico di una società. Si conta che, a ogni volgere secolo, si succedano al massimo tre generazioni. Ma in Italia, il saldo naturale è negativo e mette a repentaglio anche questo passaggio che avevamo dato per scontato: secondo l’Istat (Report “Natalità e fecondità della popolazione residente”, 28 novembre 2017) dal 2008 al 2016 le nascite sono infatti diminuite di oltre 100 mila unità. E non si prevedono inversioni di tendenza.
La demografia non è tutto e a questa denotazione, puramente anagrafica, ne va affiancata un'altra più marcatamente culturale: ci sono generazioni che si connotano per un tratto comune. Questo tratto comune ha un nome: esperienza. C’è un evento, talvolta un trauma (una guerra, un terremoto, una crisi economica) repentino e una risposta collettiva che segnano per sempre, in senso morale e affettivo, le vite che ne sono parte. È dalle grandi esperienze di senso che nascono le comunità e un’appartenenza che unisce più di ogni frattura. Ciò che distingue una generazione dall’altra non è il mero succedersi nel tempo ma l’aver vissuto esperienze condivisa. Parliamo allora – e le etichette, qui, hanno contorni e, soprattutto, un senso – della generazione della Resistenza e persino di generazione Erasmus. A tenere unite queste generazioni è un’esperienza, qualcosa che con termine rischioso e antico potremmo chiamare un destino. Proprio su questo secondo senso del termine “generazione” si registra una tendenza diversa: se le generazioni anagrafiche sono in declino, quelle di senso sono in grande crescita.
Lo riscontriamo ogni giorno, sui temi “caldi” di questi anni dall’immigrazione all’accoglienza, dalla crisi occupazionale al volontariato. Non è un caso che da una ricerca condotta dall’Istituto Toniolo e promossa dal Centro Studi Misericordie Alfredo Merlini emerga come il 94% dei giovani che hanno fatto esperienze di volontariato risponde di voler continuare il percorso. Poiché non esiste comunità se non c'è un'azione capace di un linguaggio autonomo, l’espressione “dare voce ai giovani” non può rimanere confinata fra le buone intenzioni o peggio ridursi a un parlare e parlarsi addosso. Per questo, quando arriva senza filtri, la voce delle generazioni sorprende. Da una recente indagine sugli 8000 oratori italiano, Nando Pagnoncelli (Ipsos) ha registrato che il 66% è motore di attività caritative e di volontariato molto richieste e seguite dai ragazzi.
Teen Age: giovani e diritti
In principio furono i teenagers, soggetto collettivo che, forte dell’età, la teen age compresa fra i 13 e i 18 anni, si affacciava – e fu la prima volta con questa determinazione – sulla scena del mondo. Nel gennaio 1945, a guerra ancora in corso, il “New York Times Magazine” pubblicò un decalogo redatto da questi “nuovi giovani” che chiedevano una società senza discriminazioni e una partecipazione attiva nella cura del mondo.
Una sorta di carta dei diritti che segnò un punto di svolta nella percezione e nell’autopercezione giovanile. I “Teen Commandments” – il giornale ebbe gioco facile nel gioco sull’assonanza di “teen” e “ten”, dieci- venivano pensati per «andare incontro ai problemi dei giovani che crescono» e prevedevano, tra gli altri, «il diritto di dimenticare l’infanzia». E anche qui, il vecchio Benedetto Croce ci corre in aiuto. Due anni prima del «decalogo», dalle pagine della Critica avvertiva: attenti ai giovani che vogliono rimanere tali e non invecchiano. «Il loro unico diritto – scriveva – e dovere insieme, è, semplicemente, di cessare di esser giovani, di passare da adolescenti ad adulti».
Parole che sanno d’oggi. Perché se qualcosa si è inceppato, in questi anni, è stato proprio questo doppio passaggio soggettivo e intergenerazionale. È come se ci fossero generazioni senza eredi e eredi senza generazioni, ci spiega un altro filosofo, Remo Bodei, autore di Generazioni. Età della vita, età delle cose (Laterza, 2014).
Senza eredi
Il termine erede – osserva Bodei, che da anni insegna all’Università della California – traduce il latino heres che scaturirebbe dalla radice indoeuropea ghar, ossia “colui che prende”. Oppure, secondo un’altra ipotesi, dalla forma indebolita del greco cheros che significa “il diventato orfano”. «Non si danno generazioni senza eredi, ma non ci sono eredi senza un passaggio che prevede il distacco». Ma proprio l’incepparsi di questo passaggio “ereditario” costituisce, oggi, il problema di fondo…continua a leggere
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