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Libia: il punto sull’evacuazione dei centri di detenzione
Evacuare i centri di detenzione e liberare le persone bloccate in condizioni disumane. Era questo l’annuncio fatto settimana scorsa dai leader dell’Unione Europea e dell’Unione Africana, eppure i punti da chiarire rimangono moltissimi, primo tra tutti il fatto che la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra e per ora riconosce lo status di rifugiato solo a sette nazionalità
È passata quasi una settimana dall’annuncio fatto all’ultimo summit Europa-Africa di una vera e propria “evacuazione” dei migranti detenuti in Libia in condizioni disumane. Una dichiarazione anticipata dal Presidente francese Emmanuel Macron che in visita in Burkina Faso aveva affermato l’intenzione di chiedere all’Africa e all’Europa di correre «in salvataggio delle persone intrappolate in Libia e portino un sostegno massiccio per l’evacuazione delle persone in pericolo».
A rompere il lungo silenzio dei leader europei e africani, l’ennesima inequivocabile denuncia delle condizioni a cui sono costretti i migranti in Libia rappresentata dalla video-inchiesta della Cnn sulla tratta degli esseri umani, venduti al mercato come schiavi. Un piano di evacuazione, quello annunciato al summit di Abidjan che ha presentato subito come nodo centrale il rimpatrio dei migranti bloccati in Libia, tanto che le dichiarazioni dei leader internazionali riuniti in Costa d’Avorio è seguita il 1 dicembre la dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), il cui direttore generale, William Lacy Swing, ha confermato «il pieno sostegno dell’Organizzazione all’iniziativa presentata questa settimana dall’Unione Africana in concerto con l’Unione Europea e il governo di Unità Nazionale libico insieme alle Nazioni Unite per cercare di alleviare le condizioni di migliaia di migranti bloccati in Libia».
Un’evacuazione che non è un’evacuazione
L’OIM sta intensificando il programma di “Ritorni Umanitari Volontari”, puntando così a rimpatriare 15mila persone entro la fine dell’anno, però spiega Federico Soda direttore dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione, «bisogna essere cauti con l’utilizzo del termine “evacuazione”, perché questo suggerisce che tutte le persone bloccate qui vengano rimandate nei Paesi d’origine».
Un’evacuazione di 250mila persone era effettivamente stata attuata da OIM nel 2011 ma questa situazione, precisa Soda, è molto diversa: «Si tratta del rafforzamento di un programma già attivo, sostenuto anche dall’Italia con il Fondo Africa (del Ministero degli Esteri n.d.r.) che ha destinato all’OIM 18 milioni di euro, utilizzati anche per i rimpatri volontari».
Nell’ambito di questo stesso programma oltre 13mila migranti sono già stati riportati nei Paesi d’origine nel 2017, quasi un terzo di questi provenienti dalla Nigeria, che è tra le nazionalità che la Libia non riconosce come idonee alla richiesta di protezione internazionale.
Lo status di rifugiato
Le autorità libiche hanno confermato l’allestimento di una “struttura di transito e partenza a Tripoli” che sarà gestita da Unhcr per persone che hanno bisogno di protezione internazionale.
La Libia però non è tra i firmatari della Convenzione di Ginevra. Come ha sottolineato Carlotta Sami portavoce per il Sud Europa dell’Unhcr, il Paese ha sottoscritto «solo una convenzione africana sullo status di rifugiato che, basandosi su criteri diversi, al momento considera come aventi diritto solo una lista di sette nazionalità: siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, etiopi di etnia Oromo e sudanesi provenienti dal Darfur». Queste sono le uniche nazionalità che al momento Unhcr può registrare come persone bisognose di protezione internazionale.
Per ora sono oltre 40mila le persone registrate da Unhcr, circa la metà di queste sono siriane ma moltissimi altri rimangono esclusi, anche se Sami ha affermato che «il dialogo con le autorità libiche è aperto».
Al momento però chi non appartiene a queste sette nazionalità e non può tornare al Paese d’origine perché questo non rappresenta un luogo sicuro non ha alcuna alternativa.
«Se si scappa dalla Nigeria per sfuggire a Boko Haram o perché si appartiene ad una minoranza perseguitata, il ritorno al Paese d’origine non può rappresentare l’unica opzione», ha sottolineato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. «In Libia non c’è la piena operatività degli organismi che si occupano delle richieste d’asilo, le persone sono rimandate indietro basandosi esclusivamente sul principio di nazionalità».
Il principio di volontarietà
Dei 29 centri “ufficiali” l’OIM ha un accesso quotidiano a circa 22, mentre al momento lo staff dell’organizzazione nel Paese è composto da 160 operatori libici e 8 internazionali.
Rispetto a Unhcr, che per ogni singola visita deve ottenere l’autorizzazione, Soda spiega che «l’istruzione è di lasciare entrare gli operatori di OIM nei centri, anche se a volte le comunicazioni tra le autorità libiche non sono chiare e bisogna chiedere conferma a Tripoli».
Soda spiega inoltre che lo staff dell’Organizzazione organizza dei briefing in piccoli gruppi, dando informazioni alle persone circa la possibilità di tornare nel Paese d’origine. «Seguiamo una serie di procedure per verificare che la decisione sia volontaria e che le persone siano informate della loro scelta. Le persone sono accompagnate all’aeroporto e possono cambiare idea anche all’ultimo minuto, prima di imbarcarsi».
Carlotta Sami di Unhcr aveva spiegato a Vita che «Per la situazione critica nel Paese non ci sono le condizioni per fare veri e propri colloqui ma, una volta accertata la nazionalità di provenienza, consegniamo un documento che attesta la necessità di queste persone di protezione internazionale».
Anche in questo caso vi è quindi una differenza tra OIM e Unhcr, che Soda spiega così: «operare nel contesto libico comporta molte difficoltà e molti ostacoli ma i mandati, così come gli ostacoli, sono diversi». Soda ribadisce inoltre che il compito dell’Organizzazione «è capire se si tratta davvero di rimpatri volontari. Tutto il processo è seguito dall’OIM, il governo libico non è coinvolto in questa fase».
La questione di volontarietà però solleva una criticità importante, come ha sottolineato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, secondo cui «chiunque abbia vissuto le violenze e la schiavitù dell'inferno libico desidera andarsene al più presto da lì», indipendentemente dalle condizioni di sicurezza reale che si trovano una volta tornati a casa.
Il problema secondo OIM è che non esistono molte alternative.
«Il contesto sicuramente influisce ma in assenza di altre possibilità questo è un programma importantissimo per le persone bloccate qui», spiega Soda, «sono sicuro che se in Libia le condizioni fossero leggermente migliori e più stabili, più persone resterebbero e vedremmo un calo delle partenze per l’Europa».
E a chi ha sottolineato che il rimpatrio non può essere l’unica soluzione, Soda replica: «È una situazione difficilissima ma non ci sono altri modi al momento. Fare resettlement dalla Libia non è impossibile ma è molto, molto difficile, il problema è che per il momento non c’è apertura in Europa per accogliere le persone, le quote rimangono bassissime».
Il problema dei numeri
Secondo l’Unhcr al momento nel Paese sono presenti 500mila persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria in Libia, anche se, ha specificato Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Unhcr, «non tutti sono migranti e rifugiati, bisogna ricordare che la Libia era un Paese di immigrazione, non sono tutti intenzionati a partire per l’Europa. Gli sfollati libici sono circa 200mila».
I numeri delle persone bloccate nei centri si rincorrono. «Cambiano di continuo», spiega Soda, «ma si calcola che in questo momento siano circa tra le 16mila e le 17mila le persone bloccate qui, una cifra che è aumentata notevolmente nelle ultime settimane dopo il conflitto di Sabratha. La situazione di sovraffollamento quindi ha peggiorato ulteriormente le condizioni». E poi, ricorda Soda, «ci sono ancora molte aree della Libia a cui la comunità internazionale non ha accesso», altri centri di detenzione “non ufficiali” in cui nessuno ha ancora mai messo piede.
«Non si capisce se l’evacuazione si riferisca ai centri più o meno ufficiali controllati dal governo, a quelli legati alle milizie, oppure ai centri del tutto informali, ricavati nei garage, nei magazzini e nelle baracche dei campi agricoli», ha dichiarato Noury di Amnesty International, chiedendo che venga finalmente fatto un censimento.
La chiusura dei centri è un’utopia
«L’OIM sempre sostenuto la necessità di chiudere questi centri di detenzione ma davanti alla realtà del fatto che continuino ad esistere, dobbiamo dare assistenza a chi è bloccato qui, cercando di migliorare la situazione per quanto possibile», dichiara Soda, affermando però che la chiusura definitiva suona ancora come un’utopia. «Dobbiamo stare molto attenti quando parliamo della chiusura dei centri di detenzione. Rappresentano un indotto economico molto importante. Non credo che sia realistica l’idea che possano essere svuotati fino a quando nel Paese non si creerà un contesto più stabile».
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