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Catrambone: anche se il Papa non li nomina quella dei Rohingya resta pulizia etnica

Intervista alla fondatrice di Moas, l’organizzazione oggi impegnata nell’emergenza Rohingya in Bangladesh, dove centinaia di migliaia di persone sono arrivate in fuga da torture e violenze in Myanmar. E sul fatto che il papa non abbia utilizzato il nome "Rohingya" nell'incontro con Aung San Suu Kyii, spiega "che si nomini o meno, il risultato non cambia: questa è pulizia etnica". Moas aveva lasciato le operazioni di soccorso nel Mediterraneo lo scorso settembre: “non volevamo fare da esca alla Guardia costiera libica”

di Ottavia Spaggiari

«Non volevamo essere un’esca utilizzata dalla Guardia costiera libica per riportare le persone nei centri di detenzione gestiti dagli stessi trafficanti». Regina Catrambone non usa mezzi termini per spiegare la decisione che ha portato il Moas, l’organizzazione umanitaria da lei fondata insieme al marito Christopher, a spostare le operazioni dal Mediterraneo al Bangladesh per assistere i Rohingya in fuga da “una vera e propria pulizia etnica”

Dove si trova in questo momento? Com’è la situazione?

Mi trovo a Inani, a 40 minuti da Cox Bazaar e 30 minuti dal campo di Shamlapur. Noi siamo presenti con due campi, uno a Shamlapur e l’altro a Unchiprang. Prima dell’emergenza di agosto i profughi erano oltre 212mila, da allora ne sono arrivati oltre 624mila. I rifugiati registrati al 25 novembre sono 836.487, di cui 7.771 sono bambini non accompagnati. È una situazione disperata che va a pesare in modo drammatico su un Paese poverissimo che non ha le risorse per offrire assistenza a tutte queste persone. Ricordiamo che il Bangladesh è la terza nazionalità ad essere soccorsa nel Mediterraneo, eppure non hanno chiuso le frontiere, diverse famiglie di pescatori accolgono le persone in casa propria.

Quali sono le priorità dal punto di vista umanitario? In che condizioni sono le persone a cui state prestando soccorso?

Siamo in prima linea nell’assistenza medica e prestiamo soccorso sia ai Rohingya che alle popolazioni locali. Non si possono fare distinzioni. Il Bangladesh non è l’Europa, non c’è un sistema di accoglienza, deve essere aiutato in questa emergenza enorme, molti rifugiati arrivano sulle spiagge del Paese devastati e passano ore prima che qualcuno si accorga del loro arrivo e si riesca a prestare soccorso. La priorità in questo momento è l’accesso all’acqua pulita, le condizioni igieniche sono molto precarie e per prevenire epidemie è fondamentale garantire acqua pulita. Nelle nostre aid stations abbiamo poi registrato un altissimo consumo di medicine, soprattutto medicine pediatriche. Moltissimi rohingya hanno problemi all’apparato respiratorio, problemi di asma che non sono mai stati curati, per rendersi conto della situazione bisogna pensare che molte donne non hanno mai nemmeno visto un’ostetrica o un ginecologo.

Quali sono i racconti delle persone a cui prestate assistenza?

Sono persone in fuga, arrivano qui scheletrici. Scappano da condizioni disperate, violenze, uccisioni, molti ci hanno raccontato che di recente in Myanmar hanno ripreso a rinchiuderli in veri e propri lager, circondati dal filo spinato. Se la recinzione viene costruita lontano da un pozzo, non hanno nemmeno accesso all’acqua. È la disperazione più cupa.

Il Papa martedì ha incontrato Aung San Suu Kyii ma non ha nominato esplicitamente i Rohingya, che implicazione politica ha questa parola?

Che cosa significa per lei essere italiana? È la stessa cosa. Confido nelle ragioni diplomatiche che hanno spinto il Papa a non menzionare esplicitamente il nome dei Rohingya ma che li si chiami per nome o meno, il risultato delle cose non cambia. Come ha scritto il New York Times siamo davanti ad una pulizia etnica, alla violazione sistematica dei diritti umani più basilari. Si è parlato di un accordo tra Myanmar e Bangladesh per il rimpatrio, ma queste persone non hanno la cittadinanza birmana, sono apolidi. Come si può parlare di rimpatri in una situazione del genere?

Quanto pensate di rimanere ancora in Bangladesh?

Fino a quando ce ne sarà bisogno. Non vorrei che tra qualche anno qualche politico si svegliasse e ci dicesse di “andare ad aiutarli a casa loro”. Noi lo stiamo facendo, a “casa loro” ci siamo andati e la situazione è tremenda. Dobbiamo davvero attivarci tutti, non possiamo continuare a vedere i fenomeni migratori con uno sguardo così miope. Se qui si scatena un’epidemia, rischierà di arrivare anche da noi. Il principio di prossimità in questi casi non vale, solo perché un’emergenza sembra lontana fisicamente, non è detto che non avrà conseguenze anche per noi.

Pensate di tornare ad operare nel Mediterraneo?

Nel Mediterraneo le parole solidarietà e misericordia sono state criminalizzate. Sicuramente non siamo mai stati un pull-factor (fattore di attrazione per i migranti n.d.r.) ma non volevamo nemmeno essere un’esca utilizzata dalla Guardia Costiera Libica per riportare le persone nei centri di detenzione in Libia, gestiti dagli stessi trafficanti. Non vogliamo giocare a guardie e ladri ma prestare soccorso e salvare vite dove ci sono le condizioni per essere utili. Qui in Bangladesh oggi ci sono.

Foto: Moas

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