Non profit
La guerra è appena cominciata: il caso delle microtransazioni
Molti si stanno muovendo per fare chiarezza attorno a microtransazioni e loot-box. Ma cosa c’è di concreto? Pochi giorni fa, in Belgio, è stata istituita una commissione per esaminare se possa o meno trattarsi di gioco d’azzardo e il ministro per la giustizia Koen Green ha dichiarato che "mescolare il gioco d'azzardo e i videogiochi, specialmente in giovane età, è pericoloso per la salute mentale dei bambini". Facciamo il punto
Come abbiamo già scritto su Vita, molti si stanno muovendo per fare chiarezza attorno a microtransazioni e loot-box. Ma cosa c’è di concreto? Pochi giorni fa, in Belgio, è stata istituita una commissione per esaminare se possa o meno trattarsi di gioco d’azzardo: il sito belga VTM News assicura che, secondo le autorità belghe, le casse premio sarebbero a tutti gli effetti considerabili alla stregua del gioco d'azzardo e pertanto verrà avviata una procedura per portare la questione sul banco dell'Unione Europea. Il ministro belga per la giustizia Koen Green ha dichiarato che "mescolare il gioco d'azzardo e i videogiochi, specialmente in giovane età, è pericoloso per la salute mentale dei bambini".
Anche la Victorian Commission for Gambling and Liquor Regulation australiana ha già le idee chiare: la strada tuttavia sembrerebbe complessa, in quanto richiede un lavoro congiunto da parte di tutte le autorità del Commonwealth e non solo, con tempi che si prospettano decisamente lunghi. Il cosiddetto fenomeno del pay to win (“paga per vincere”) è ormai molto diffuso, non solo nei giochi a pagamento ma, soprattutto, nei giochi di natura free to play: termine che potremmo tradurre come “libero di giocare”, una formula che trovo personalmente ingannevole e che suona quasi come una minaccia. Libero di giocare, ma anche libero di acquistare. Ripetersi non fa male: gli acquisti, soprattutto in questa tipologia di giochi, riguardano non solo contenuti aggiuntivi, ma veri e propri potenziamenti alla stregua dei vecchi “trucchi”. Barare non è più una pratica stigmatizzata, bensì incitata parallelamente ad una competizione sfrenata che sfocia in fenomeni come dipendenze e, in casi estremi (ma purtroppo sempre più diffusi), nel cyberbullismo.
Chi non compra le casse premio, a meno di non sfoderare un’abilità divina (che spesso comunque non è sufficiente), si trova sempre e costantemente relegato ad una progressione più lenta e a dover ripetere più volte gli stessi passaggi fino alla frustrazione. Come se non bastasse, nelle cosiddette “gilde”, ovvero nei gruppi virtuali di persone che si formano all’interno di un gioco, l’acquisto delle casse premio viene incoraggiato, al fine di apportare maggiori vantaggi per l’intero gruppo e non solo per il singolo. Il singolo si annulla in favore della coesione di gruppo: questo discorso è accettabile all’interno del contesto di un gioco di squadra, ma non sono accettabili le situazioni che degenerano per tutti coloro che non si conformano. Dal semplice allontanamento da parte di una gilda, i giocatori (soprattutto i più giovani) rischiano di essere ridicolizzati e anche bullizzati all’interno del gioco, sia verbalmente sia con atti consentiti dal gioco ma che chiaramente sono focalizzati per indurre il bersaglio ad abbandonare la scena.
Purtroppo, come il gioco d’azzardo vero e proprio alimenta le casse di molte nazioni (dati recenti dicono che in Italia, mediamente, un euro ogni otto viene speso per il gioco d’azzardo), il sistema delle microtransazioni alimenta il mercato dei videogiochi. È un dato di fatto inconfutabile e gli analisti di mercato in primis spingono su questo modello economico. Quella di Michael Pachter (noto analista di Wedbush, una delle più grandi associazioni americane di brokeraggio finanziario) è una vera e propria dichiarazione di guerra: "I legislatori sono dei ritardati. Un gioco d'azzardorichiede che si scommetta per vincere qualcosa dal valore tangibile. Se il premio non può essere venduto o monetizzato, non è gioco d'azzardo. Punto. Ritardati. Dovrebbero dimettersi immediatamente".
Quindi, secondo Pachter, non sarebbe gioco d’azzardo perché il premio è qualcosa di virtuale e intangibile. Molti giustificano queste dichiarazioni asserendo che effettivamente la valuta del gioco è una valuta virtuale, tuttavia i dati sugli incassi ci dicono che i soldi spesi per vincere questi premi sono reali e tangibili. La mia tesi personale è che non si deve assolutamente cadere nella trappola dell’odio e delle crociate sanguinarie. Esistono ancora videogiochi nel senso classico del termine, pertanto è da qui che dobbiamo ripartire. C’è una domanda e pertanto ci sarà sempre un’offerta: in un mondo ideale, in una realtà semplice e scevra da qualsivoglia manipolazione, questi meccanismi sparirebbero e il vuoto sarebbe comunque colmato. Purtroppo sappiamo bene che non è così facile.
Contrapporre esclusivamente l’odio alla radicalizzazione del mercato è una trappola: da un lato si schierano le belve feroci del marketing e dall’altro gli “haters” spietati, coloro che non dialogano e boicottano a prescindere. I videogiocatori, soprattutto quelli più giovani e vulnerabili, si trovano esattamente al centro. Leggendo quotidianamente online le notizie dal mondo, ci si imbatte sempre più spesso in padri disperati perché i loro figli bruciano i risparmi con acquisti di casse premio: è chiaro che questi ragazzi non hanno scelto la via dell’odio, bensì le lusinghe del marketing. Le case di sviluppo sembrano rinunciare tranquillamente alle vendite clamorose e agli incassi dei preordini: purtroppo si ripagano con utenti più selezionati ma che sono disposti ad investire ciecamente nei loro prodotti, supportandolo con l’acquisto di contenuti risibili e casse premio. La gioia degli shareholder azionari è comunque assicurata.
La prima difesa in quella che ormai è una vera e propria guerra non può che essere un’informazione corretta e supportata dai fatti. In secondo luogo servono alternative che non siano dannose e che stimolino ad una compartecipazione tra sviluppatori e consumatori. Il videogiocatore non deve essere esclusivamente l’utente finale, ma va considerato effettivamente come uno stakeholder, un portatore di interessi, benessere e idee costruttive.
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