Welfare

Vie fittizie per i senza dimora: Comuni ancora in quarantena

Appena il 2,5% l’ha istituita. Eppure sono fondamentali per gestire il sistema dei servizi sociali in caso di nuove limitazioni degli spostamenti

di Francesco Dente

Poco più di duecento su una platea di 8mila. Sono pochi, pochissimi, i Comuni italiani che hanno istituito la cosiddetta “via fittizia” che consente l’iscrizione anagrfica delle persone senza dimora. Fittizia perché esiste solo sulla carta, non fisicamente. Una via virtuale frutto di una finzione giuridica che tuttavia produce effetti reali. Chi riacquista la residenza riconquista infatti pienezza di diritti. Chi la perde perché finisce in strada invece non ha più il diritto al voto, al gratuito patrocinio, alla riscossione della pensione, a iscriversi al collocamento o aprire una partita Iva. Perde, soprattutto, il diritto all’assistenza sanitaria — tranne il pronto soccorso — e al welfare. Un’eventualità che l’emergenza Covid potrebbe moltiplicare. Rischia infatti di spingere fuori di casa lavoratori licenziati, imprenditori falliti, pensionati al minimo che non ce la fanno con la pigione, padri divorziati che devono lasciare la casa coniugale.

«La povertà sta aumentando, basta fare un giro nelle mense. Più aumenta la povertà più le persone finiscono in strada. Il pericolo potrebbe concretizzarsi quando non ci saranno più il blocco dei licenziamenti e degli sfratti», mette in guardia Antonio Mummolo, presidente di Avvocato di strada onlus. Se ad esempio i Comuni si fossero già dotati della via convenzionale, durante il lockdown avrebbero potuto dare i buoni spesa anche ai senza tetto riducendo così il rischio di marginalizzazione. Peccato che nei mesi del blocco solo quattro municipi abbiano deliberato la via fittizia.


Il nodo delle città medie
In complesso al momento sono 219. I dati, ufficiosi, sono raccolti dalla Fiopsd, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora. Il ministero dell’Interno non ha risposto a Vita e non esiste un elenco presso l’Istat (la cui ultima indagine sugli homeless è del 2014). «Se è vero che la maggior parte delle grandi città, quelle cioè in cui vanno a vivere i senza dimora, ha istituito la via fittizia e che nei piccoli comuni ci sono reti di solidarietà familiare e amicale più diffuse, è vero anche che la crisi post Covid può penalizzare le città medie. Occorre attrezzarsi con la via fittizia», osserva l’avvocato Mummolo.

I Comuni rischiano dunque di farsi cogliere ancora una volta impreparati. Si tratta solo di negligenza? «Tendono a ignorare il problema perché non vogliono aggiungere peso sociale al proprio welfare. Ma sbagliano: oggi, peraltro, le politiche di welfare non sono più solo comunali ma nazionali», fa notare Cristina Avonto, presidente della Fiopsd. C’è l’altro lato della medaglia. I furbi. Fra i senza dimora purtroppo si annida anche chi cerca di far perdere le tracce per sottrarsi a tasse, multe e noti che. «La via fittizia toglie ai Comuni l’unico strumento per costringere una persona a regolarizzare la posizione anagrafica: cioè la cancellazione per irreperibilità a un indirizzo fisico. Questo è infatti il mezzo che l’ordinamento ha apprestato per far sì che a un certo momento la persona, trovandosi priva di iscrizione, venga alla luce del sole nel luogo dove vive effettivamente», argomenta Liliana Palmieri, esperta dell’Anusca, l’associazione nazionale degli ufficiali di stato civile e d’anagrafe.

Cos’è il domicilio?
Di qui (anche) la resistenza dei Comuni. Basta leggere del resto il bilancio sociale di Avvocato di strada per farsi un’idea. Nel 2019, prima del Coronavirus dunque, i legali dell’associazione sono stati impegnati in 861 cause che vertevano sul diritto alla residenza. Ben il 46% in più rispetto a un anno prima.

Una tendenza confermata dal rapporto “Senza tetto non senza diritti” curato nel 2019 sempre da Avvocato di strada. Dallo studio su 168 Comuni di dimensione media e grande emergono dati definiti «allarmanti». La stessa definizione giuridica di domicilio non sembra condivisa da tutti i Comuni. Una definizione centrale, invece, perché ai fini della residenza dei senza dimora si fa riferimento non alla “dimora abituale” ma al domicilio, cioè la sede principale degli affari e interessi della persona. Sede che può essere una mensa o anche un bar dove l’homeless va quotidianamente.

Dal rapporto risulta inoltre che i vari municipi intervistati seguono prassi applicative diverse che «rendono spesso difficoltoso l’esercizio effettivo del diritto» all’iscrizione anagrafica. Diritto soggettivo, ricordiamo. Un Comune, addirittura, ha risposto che non è possibile la domiciliazione presso le associazioni. Il Terzo settore ricopre invece un ruolo centrale: garantendo che il senza dimora fa riferimento all’organizzazione sociale “rassicura” gli uffici dell’anagrafe accelerando la pratica di iscrizione. Altra assurdità: il nome dato alla via fittizia. I Comuni possono intitolarla a persone o eventi. Si pensi a Roma che l’ha dedicata a Modesta Valenti, la donna senza dimora morta a stazione Termini perché l’ambulanza si rifiutò di prenderla a bordo. Ebbene non pochi municipi indicano la strada convenzionale col nome via dei Senza dimora. Un marchio sulla carta di identità.


Nell'immagine di copertina un senza dimora ad Arezzo, una delle città in cui esiste la via fittizia per homeless

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