Non profit

Un silenzio assordante

Nei giorni del caos, finanza etica grande assente?

di Francesco Maggio

Scriveva qualche settimana fa sul Corriere della sera, Alaessandro Penati: «Non mi sorprendono i casi Enron. Mi stupisce che siano così pochi». Aveva ragione a stupirsi l?economista della Cattolica di Milano, perché dopo soli pochi giorni sarebbe scoppiato uno scandalo le cui proporzioni finanziarie avrebbero fatto impallidire quello dell?ex colosso texano dell?energia. Worldcom, la seconda società telefonica degli Stati Uniti (presente in 65 Paesi, 35,2 miliardi di dollari di fatturato nel 2001, 85mila dipendenti, una rete in fibra ottica di oltre 112mila chilometri), con il ricorso agli utili proforma e ad altre simulazioni contabili pare, infatti, che abbia spostato dalla voce dei costi a quella degli investimenti 3 miliardi di dollari nel bilancio dello scorso anno; 800 milioni nel primo trimestre del 2002. L?utile mostrato dall?azienda negli ultimi 5 trimestri è quindi, in realtà, un passivo. L?esposizione del gruppo è stimabile in 30 miliardi di dollari in bond e commercial paper (oltre a 2,65 miliardi in crediti bancari). Il titolo che meno di due anni fa aveva toccato una quotazione di 62 dollari, è sceso oggi a 83 centesimi e le agenzie di rating lo hanno laconicamente classificato ?titolo spazzatura?. Dopo Enron e prima di Worldcom erano già finiti nell?occhio del ciclone, per malversazioni varie, nomi blasonati di Wall Street come Global Crossing, Tyco, Merrill Lynch, Xerox. E ormai, la crisi di fiducia nei mercati è diventata pressoché totale. Da inizio anno tutte le principali Borse mondiali perdono: Dow Jones, -7,27; Nasdaq, -24,86; Londra, -10,75; Parigi, -15,71; Francoforte, -15,14; Milano, -10,73; Zurigo, -6,83. Così in tanti si dichiarano d?accordo nel sostenere che la crisi del capitalismo finanziario è sistemica e che va, quindi, profondamente riformato. A cominciare dal presidente George Bush che, dopo aver ammesso di essere «molto preoccupato per le irregolarità contabili che stanno emergendo in America», ha annunciato l?imminente approvazione di un piano in 10 punti sulla corporate governance. Burton Malkiel, professore di etica e business alla Princeton University, è andato giù ancora più duro, individuando nel conflitto di interessi il punto centrale su cui concentrarsi: «Sono per le soluzioni drastiche, proporrei di impiccare i colpevoli al pennone più alto mentre per i complici bisognerebbe chiuderli in prigione e buttar via la chiave». In Italia, un giurista del calibro di Guido Rossi, ha commentato: «Il conflitto di interessi ha pervaso profondamente questo capitalismo finanziario. Non se ne esce senza una rivoluzione etica. Perfino negli Stati Uniti si è indebolita pericolosamente la ?shame culture?, la cultura della vergogna, quella stessa che nell?antica Grecia aveva creato la peggiore delle sanzioni: l?ostracismo». Insomma, sono molteplici le voci che si alzano per individuare possibili vie d?uscite da una crisi che appare senza fine. Tante voci, sì. Tranne una. Quella che forse più di altre (almeno in teoria) avrebbe più autorevolezza per levarsi in questo particolare frangente della storia finanziaria internazionale: la voce della finanza etica. Quella di chi fa socially responsible investing. Qualcosa di lontano Per almeno due ragioni: per ribadire che investire in aziende che hanno a cuore la responsabilità sociale e ambientale rende (come mettiamo ben in evidenza in questa pagina con i tre titoli Merloni, Italgas e Sabaf, che da inizio anno, a Piazza Affari, hanno rispettivamente visto crescere i propri corsi dell?89,56, del 5,92 e del 15,88%); per esporre in vetrina, ora più che mai, i loro prodotti. E invece, niente. «La maggior parte delle case di investimento che offrono fondi etici», spiega a E&F, Karina Litvack, responsabile dell?area Governance e socially responsible investing di Friends Ivory and Sime (società di asset management inglese che ha il 50% del mercato locale dei fondi etici), «vede questi scandali come qualcosa che non la riguarda, qualcosa di lontano da lei. E questo è un grande errore, oltre che un fatto estremamente significativo di una ipocrisia più generalizzata che pervade, per esempio, il mondo universitario inglese». «Qui», aggiunge la Litvack, «fioriscono i corsi di etica ed economia, ma poi gli studenti, una volta laureati, incontrano grosse difficoltà a trovare lavoro perché il sistema finanziario e industriale non considera un atout del proprio curriculum l?aver studiato discipline come l?etica, la tutela ambientale, la responsabilità sociale d?impresa». Idem vale per l?Italia. Ha ragione allora Angelo Abbondio, patron di Symphonia, quando sostiene che tra fondi etici e non etici la differenza è irrilevante? Perché questo silenzio così assordante? Proviamo ad avanzare qualche spiegazione. Tre per la precisione. Solo per visibilità I gestori di fondi etici sono impreparati a fare uno screening rigoroso dei titoli in cui investire (come lo scoppio della bolla speculativa dei titoli della new economy, che li ha pesantemente penalizzati, ha eloquentemente dimostrato). Non sanno «vedere lontano». Ha scritto lucidamente, al riguardo, Jeffrey Sachs: «Purtroppo gli analisti finanziari hanno spesso una preparazione economica insufficiente, privilegiano un?attività superficiale di visibilità sui media, trascurando le informazioni sui fondamentali economici e preferendo basarsi sulle voci e le ?mode? finanziarie del momento». Seconda ragione: i fondi etici fanno parte non di rado di gruppi creditizi esposti, a vario titolo, con le aziende oggetto dei vari scandali. E, quindi, non possono pronunciarsi senza poi prestare il fianco a critiche fin troppo facili. Affermava in un?intervista alcune settimane fa Paola Giannotti De Ponti, responsabile dell?Investment banking Italia di Dresdner Kleinwort Wasserstein: «Dentro le banche sono finiti tutto gli errori di questi anni. Si pensi alla filiera delle telecom, le spese assurde, gli investimenti eccessivi, ecc. Tutto finito nelle banche, nei crediti che le banche hanno concesso allegramente alle telecom e che sono lì, congelati, imbalsamati». Stile di gestione Terza ragione: chi opera in questo comparto non ha ancora capito che l?etica in finanza è da intendersi in molteplici accezioni. Non solo come criteri di esclusione dai soliti settori produttivi. E poco più. Ma anche, anzi soprattutto, come stile di gestione, trasparenza nelle comunicazioni, decenza nelle remunerazioni (vedi la questione delle stock option). E che in una scelta di un titolo in cui investire questi fattori devono entrare pesantemente. Scrive Giorgio Colli in una suggestiva presentazione all?Etica di Spinoza (edizioni Bollati Boringhieri): «Per inoltrarsi nel buio delle gallerie dell?etica (le definizioni, le proposizioni, gli scolii) occorre possedere un cuore fermo e un occhio notturno». Con tanti pseudo esperti di finanza etica si ha invece l?impressione che siano rimasti al Piccolo principe di Saint-Exupéry: «Così sono i passeggeri della nave. Usano della nave senza darle nulla. Ignorano il lavoro delle strutture sotto la pressione dell?eterno mare. Con quale diritto si lamenteranno, se la tempesta sconquassa la nave?».


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