Politica
EU Next Generation, che ruolo per la società civile nell’indirizzare i 209 miliardi per un vero sviluppo?
A essere sfidata dall'ammontare di risorse per costruire la “nuova normalità” è anche la società civile e i suoi corpi intermedi, lavorando non solo per posizionarsi all’interno delle linee guida” che sostanziano le diverse missioni ma contribuendo a costruire queste ultime e a incrementarne l’impatto: un’intersezione che richiede pragmatismo e una grande disponibilità al cambiamento
Basteranno i 209 miliardi di euro di EU Next Generation per riportare politiche mission-oriented nell’agenda di sviluppo del Paese? Non è una domanda facile a cui rispondere perché questa volta non si può utilizzare la solita spiegazione in voga (e spesso a ragione) negli ultimi decenni, ovvero, che non ci sono (o scarseggiano) le risorse. Stavolta il fondo è corposo e per di più arriva dall’Europa con indicazioni che non sono le solite rigoriste, cioè dei vincoli sul debito o dei sistemi di rendicontazione che prevalgono sugli obiettivi, ma riguardano piuttosto “cose da trasformare” ovvero investimenti tesi a costruire, in estrema sintesi, nuovi modelli di economia (più sostenibile) e di società (più equa).
Una situazione nuova che rischia però di svelare che il re è nudo e non solo guardando alla politica e alla sua incapacità di costruire piani con obiettivi di cambiamento profondi, duraturi e rendicontabili a fronte invece di una miriade di dispositivi amministrativi a corto raggio ben esemplificati dal florilegio di bonus e sgravi fiscali puntuali. A essere sfidata da questo ammontare di risorse per costruire la “nuova normalità” è anche la società civile e i suoi corpi intermedi, lavorando non solo per posizionarsi all’interno delle “linee guida” che sostanziano le diverse missioni ma contribuendo a costruire queste ultime e a incrementarne l’impatto: un’intersezione che richiede pragmatismo e una grande disponibilità al cambiamento.
Non è più ammissibile leggere il valore sociale delle proposte contando la “ricorrenza” di parole come terzo settore, economia sociale e non profit. Valutare la bontà o meno dei documenti di politica che si susseguiranno in questa fase andando semplicemente a misurare il “peso specifico” di ciascun attore nei preamboli e nelle misure applicative è, da questo punto di vista, una modalità di operare che poco ha a che fare con indirizzi di missione. Anzi il rischio è di svilire le mission trasformandole in rendite di posizione volte più a vincolare che a investire le risorse.
Contribuire a questa nuova stagione di politiche richiede invece di armonizzare capacità di elaborazione rispetto alla situazione in atto (e ai futuri possibili) e capacità operativa in termini di produzione e redistribuzione di risorse attraverso beni, servizi, trasferimenti economici. Senza questo equilibrio il rischio è di trasformarsi in esteti del policy making con poca o nulla capacità di incidere sui dati di realtà dell’economia e della socialità. Oppure, all’opposto, che la capacità di intervento venga soggiogata da missioni stabilite altrove (cioè in altri contesti e da altri attori) e quindi non in grado di mettere a valore contributi importanti e distintivi che potrebbero arricchire le policy rendendole davvero d’impatto.
Se l’obiettivo quindi è disegnare politiche che siano “missioni di missioni” tese quindi a far convergere apporti di visione e di operatività in modo non disgiunto, allora è necessario, in primo luogo, qualificare i processi partecipativi rendendoli più efficaci visto che saranno carichi di conseguenze rilevanti e di lungo periodo. In secondo luogo è necessario rimettere mano alla funzione di intermediazione sociale che coinvolge organizzazioni della rappresentanza (reti, federazioni, coalizioni) e strutture della conoscenza (centri di ricerca, think tank, ecc.) affinché sappia meglio operare con le vaste e diffuse “comunità del cambiamento” che ormai sono stabilmente innestate in istituzioni, settori, ambiti territoriali diversi. Infine è indispensabile che l’eterogeneità di ciò che sta in mezzo allo Stato e al Mercato, si ricomponga per riaffermare la centralità dell’economia sociale come imprescindibile attore del progresso e non come “accessorio”.
Il trasferimento di risorse non garantisce la trasformazione. La generatività delle risorse europee passerà dalla nostra capacità di costruire alleanze di scopo intorno ad obiettivi radicali, qualificanti e misurabili in termini di posti di lavoro (dignitoso, anche rispetto alle aspirazioni delle persone). Politiche che alimentano “interdipendenza” e che partono dalla premessa che lo Stato imprenditore è innanzitutto uno Stato facilitatore e sussidiario. L’economia sociale è il più potente dei dispositivi per costruire tutte e diciamo tutte le “grandi sfide in campo”. Facciamo insieme lo sforzo di pensare ad una sanità territorializzata senza alcun ruolo della cooperazione sociale, politiche per la transizione ecologica senza la cittadinanza attiva, processi di digitalizzazione di città e imprese senza un ruolo attivo delle comunità, azioni di contrasto alla disuguaglianza senza la cooperazione e il volontariato.
Siamo in una fase decisiva. Se la ripartenza si baserà su una visione dicotomica, avremmo certamente perso la battaglia, perché la complessità postula il ruolo “contributivo” del terzo pilastro. Servono “governance sperimentali” dove operatori e funzionari strutturati operano fianco a fianco con attivisti, ricercatori, smanettoni, ecc. all’interno di programmi di autentica innovazione aperta che non si fanno in vitro ma stando “lì nel mezzo” della dimensione di luogo. La ripartenza è radicale se è radicata ossia se ha un “Dove”.
Una strada certamente più difficile ma di maggiore soddisfazione se l’esito sono missioni dove a contare non sono gli interventi “su misura” per ciascuna lobby, ma piuttosto la capacità di significare politiche apprendendo in corso d’opera da azioni messe in grado di essere davvero generative. Una modalità che può consentire di distinguere le missioni preconfezionate da quelle sostanziali, ma anche di dar corpo a misure che approcci autoreferenziali classificano frettolosamente come marginali e “fumose”.
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