Volontariato

Kosovo: non di solo pane campano i profughi

Migliaia di tende, pasti caldi ogni giorno, cure mediche e assistenza. Ma ora i volontari pensano anche al resto.

di Carlotta Jesi

Causale ?Pro Kosovo?. A due mesi esatti dalle prime bombe su Pristina e Belgrado, dopo tanti summit politici e militari e nonostante talk show e slogan elettorali di ogni tipo, a tenere in vita i profughi del Kosovo, purtroppo, è sempre e soltanto una semplice causale di versamento. Quella che organizzazioni e associazioni impegnate nei territori dell?ex Jugoslavia sperano di vedere sui conti correnti a loro intestati per sostenere le centinaia di volontari in loco e le loro attività con i profughi. Quella che ?Vita? pubblica da quattro settimane e che, grazie alla sensibilità dei suoi lettori, in sessanta giorni ha dato ottimi risultati. A quantificarli, in miliardi di lire, tendopoli, pasti caldi e scuole prefabbricate, sono in queste pagine volontari e cooperanti della società civile. Che dall?Albania, Macedonia e Montenegro tentano un bilancio delle prime otto settimane di aiuti e indicano ciò che temono almeno quanto i missili: il sole d?agosto e l?inverno che seguirà. Un futuro per 700 mila bambini «Tre miliardi e settecentomila lire». Ivano Zoppi, responsabile del programma di sostegno a distanza dell?Aibi, le cifre della solidarietà piovuta sul Comitato Italiano di sostegno a distanza le scandisce una a una. E precisa: «Con i versamenti, 300 mila lire per sostenere un piccolo profugo sei mesi, tra tutte le associazioni che compongono il Comitato abbiamo aiutato circa settemila bambini». Di cui i ?Tutor? Aibi, sguinzagliati nei campi profughi e tra le famiglie albanesi che li ospitano, hanno monitorato esigenze mediche, alimentari e psicologiche. «Senza mai consegnare semplicemente del denaro, perché è rischioso e quello cui noi miriamo è un aiuto concreto». Un sostegno che non si limiti a un tetto per dormire ma garantisca alle vittime della guerra, soprattutto quelle più giovani, il supporto psicologico necessario a riacquistare fiducia nel futuro e magari anche a immaginarselo. Lo spiega bene Stefano Kovac dell?Ics. Che per il Consorzio Italiano di Solidarietà, nelle città macedoni di Skopje e Tetovo, sta attivando cinque play room. «Si tratta di edifici in cui, insieme all?Acnur, organizziamo attività socioeducative per i bambini e i giovani. Su 260 mila accolti in questa zona, circa 130 mila sono ospitati da famiglie locali e farli uscire ogni tanto da stanze sovraffollate in cui regnano depressione e dolore è vitale». Insomma, conclusa una prima fase meramente assistenziale degli aiuti, l?esercito umanitario è passato alla fase due. «Quella di ?ricostruzione? della personalità dei profughi», spiega Kovac. E alla richiesta di quantificare la solidarietà ricevuta finora, con cui l?Ics manda avanti i suoi sette campi profughi in Albania, Macedonia e Montenegro, risponde: «Infinita disponibilità di volontari, cento tonnellate di materiale alla settimana e circa 800 milioni di lire». Basterà per fare in modo che i rifugiati, dal più giovane al più anziano, pur con mille buone intenzioni non finiscano per essere trattati come animali da stalla privi di iniziativa? «Il rischio è grosso», risponde dall?Albania Lucio Melandri di InterSos. «Mettiamola così, abbiamo raggiunto una piccola stabilità, garantito il pane e un riparo, ma adesso bisogna proprio partire con altre attività. E soprattutto far sentire i profughi utili e vivi coinvolgendoli nella gestione dei campi e degli aiuti». InterSos lo fa già da tempo in Albania, Macedonia e in Montenegro senza mai dimenticare i bisogni sociali delle famiglie locali. E per un?attività di questo tipo, che si affianca alla costruzione di campi e al mantenimento di circa 50 mila profughi, i 46 milioni e 986 mila lire raccolte dall?organizzazione non sembrano abbastanza. Il responsabile della Caritas Albania, Don Segundo Tejado, cui abbiamo dedicato la nostra prima copertina in tempo di guerra dice: «Alla Caritas arrivano molti aiuti», racconta da Tirana. «Quella italiana ha ormai superato i 4 miliardi. Ma qui bisogna ricordarsi che siamo nel Paese più povero d?Europa. Che non solo l?emergenza non è finita, ma siamo ancora nel caos e abbiamo bisogno di togliere i profughi dalle tendopoli e portarli sotto un tetto più solido». La nostra lotta al mercato nero Le maggiori difficoltà? Superata la mancanza di tende e un po? di disorganizzazione iniziale, dai territori al confine con la guerra la risposta è sempre la stessa: dogane, flusso incontrollato di profughi e un po? troppo imperialismo da parte delle ?grandi aziende umanitarie?. «La frontiera con la Macedonia è chiusa», spiega da Skopje Ennio Boati di InterSos. «In teoria il governo accetta tanti profughi quanti ne escono, ma in pratica noi non possiamo fare finta che il flusso sia finito. Dobbiamo continuare ad allargare il campo, e molte difficoltà derivano dal fatto che tende e aiuti stanno per giorni alle dogane». Ogni tanto finiscono anche sul mercato nero. Anche se a rivenderle possono essere gli stessi profughi in cerca di denaro extra per pagarsi un alloggio. «Come è successo con alcune scarpe che la Nike aveva donato a una ong straniera, rivendute qualche giorno dopo a prezzi esorbitanti per le strade». Sulle eccessive formalità di sdoganamento, che spesso vengo evitate con tangenti e bustarelle, punta il dito anche Aibi. «La Missione Arcobaleno ci sta aiutando molto», spiega Zoppi, «ma sugli interessi della polizia albanese o macedone è difficile passare». E a volte anche ricavarsi uno spazio nella gestione americana dei campi. I volontari non fanno nomi precisi, ma le lamentale sono chiare. «Convivere con le grandi organizzazioni spesso è problematico», spiega Paolo Taniazzo dell?Ics. E sul perché Ennio Boati di InterSos non ha dubbi: «Le grandi e ricche agenzie internazionali hanno un atteggiamento un po? troppo colonialistico. Il management dei campi è spesso affidato agli americani, e la maggior parte delle volte dietro a risoluzioni pratiche ve ne sono di politiche nascoste. Insomma, se è vero che imbottire di fondi una piccola ong è sbagliato, è altrettanto vero che le agenzie non spendono bene tutti i soldi che hanno». Le regole dell?aiuto umanitario Che sia giunto il tempo di pensare a una riforma degli aiuti? «Criticare è troppo facile», tuona Don Segundo della Caritas Albania, «soprattutto dall?Italia. E soprattutto contro le Agenzie dell?Onu che, come l?Acnur, hanno proprio il mandato di coordinarci. Magari anche togliendo un po? di tempo all?azione. Con mezzo milione di profughi da accogliere, accudire e rimettere in grado di pensare a una vita qui non c?è tempo per le chiacchiere. Bisogna solo lavorare». Ma non tutte le ong impegnate nell?ex Jugoslavia la pensano così. È il caso del Comitato Italiano per lo Sviluppo dei Popoli (Cisp), che dal 1998 lavora nei distretti albanesi di Kruja e Kurbin per assistere i disabili, che alla redazione di ?Vita? invia un vero e proprio documento di riflessione sull?approccio umanitario che dovrebbe essere usato per questa emergenza. Stilato il 13 aprile 1999 a Tirana, riflette soprattutto sulla necessità di coinvolgere maggiormente i profughi e i governi dei Paesi che li ospitano. Questi i punti salienti del documento: durante l?implementazione di ogni progetto umanitario le ong devono organizzare riunioni consultive con i profughi per conoscere le loro aspettative a breve e lungo termine; nessun piano politico sulla destinazione dei rifugiati può ignorare desideri dei diretti interessati; le operazioni umanitarie devono sempre tener conto della fragile situazione socioeconomica dei Paesi che ospitano i profughi; ogni azione internazionale deve coinvolgere le forze locali e prepararle a gestire autonomamente in futuro l?emergenza. Insomma, una strategia che al centro dell?intervento umanitario pone le vittime della guerra come uomini fatti di sentimenti, pensieri e capacità, oltre che di bisogni. Come persone che fino a qualche settimana fa erano professori, infermieri, mamme, cuochi e operai specializzati con una precisa identità. Tutti esseri umani che, al 18 maggio, l?Acnur stima in 742.800. E che, nonostante i media abbiano scandagliato le loro lacrime e mostrato la loro sofferenza, sentono ancora tuonare le bombe e hanno bisogno di una piccola causale di spesa per sopravvivere.


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