Formazione

Serve più flessibilità o la scuola dell’inclusione non ci sarà mai

La legge 517/1977, quella che ha portato gli alunni con disabilità fuori dalle scuole speciali, compie quarant'anni. Dario Ianes fa il punto sul cammino fatto e su quello che ancora dobbiamo fare

di Sara De Carli

Una serie di anniversari che non possono lasciare indifferenti chi ha a cuore la scuola e l’inclusione: 40 anni della legge 517, quella che aprì le scuole a tutti; 25 anni della legge 104; 50 anni della Lettera a una professoressa. Parte da qui “Lontani da dove? Passato e futuro dell’inclusione scolastica in Italia”, un volume di oltre trecento pagine, curato da Dario Ianes e Andrea Canevaro. Verrà distribuito ai 4mila partecipanti all’XI Convegno “La qualità dell’inclusione scolastica e sociale”, che apre domani a Rimini.

Professor Ianes, quanto del sogno di una scuola inclusiva si è realizzato?
Nella legge 517 c’erano intuizioni interessanti che si sono perse per strada, due in particolare: la prima è che per favorire l’integrazione – allora si parlava di questo – bisognava pensare forme di didattica flessibile, aperta, per gruppi, rompendo l’unità della classi, l’altra è che si prefigurava la nascita di un servizio di consulenza sociopedagogica da mettere nelle scuole. Questi due temi, flessibilità e organizzazione della didattica e servizio sociopedagogico si sono persi, mentre si è insistito molto sull’ insegnante di sostegno.

Perché?
Immagino perché il servizio sociopedagogico può occupare 10mila persone contro i 150mila insegnanti di sostegno. E soprattutto perché l’aspetto tecnico dell’andare a fare consulenza e supervisione nella scuola non è visto bene: basti pensare ai vari disegni di legge sullo psicologo nella scuola, mai andati a buon fine. La scuola è impenetrabile. Sarebbe stata invece un’ottima cosa perché in quel modo davi competenze a tutti i docenti. Quanto alla flessibilità, se negli anni ‘70 fosse stato fatto un grosso investimento per cambiare la didattica, si sarebbe cambiato radicalmente la scuola: fra l’altro c’era molta più pedagogia di adesso, sarebbe stata una trasformazione vera. Succede spesso in Italia, nelle leggi ci sono intuizioni o dispositivi molto avanzati che poi vengono erosi e deformati in direzioni diverse.


A che punto siamo però oggi?
È difficile dirlo, perché dipende da quale chiave di lettura usi. Se guariamo i numeri possiamo dire che gli insegnanti di sostegno aumentano ogni anno, che il 99% degli alunni con disabilità sono dentro la scuola di tutti, che le certificazioni che aumentano (un tema su cui ci sono letture opposte), però d’altra parte troviamo sempre più spesso casi di microemarginazione e le classi ghetto. Quella italiana è una situazione complessa, esistono contesti estremamente interessanti e altri di degrado dei processi di inclusione. È una situazione difficile da studiare e analizzare, perché non ci sono dati precisi d’insieme, parliamo sempre in via impressionistica, i dati che abbiamo vengono da questionari a cui rispondono dirigenti o insegnanti, è un filtro potente…. Noi facciamo la nostra ricerca, i dati ci dicono che l’inclusione non va benissimo, che i meccanismi di delega all’insegnante di sostegno stanno aumentando, ma il dato complessivo non c’è. È enormemente difficile dare un giudizio fondato su dati reali, per interpretare un fenomeno bisogna che la descrizione sia corretta. Quel che è certo è che il tempo della retorica – “siamo i migliori al mondo, integriamo tutti” – è finito, non regge più. È finito anche perché è finita la generazione di insegnanti che hanno cambiato la loro didattica partendo da certe motivazioni. Raffaele Iosa ha raccolto le storie degli insegnanti della “Generazione don Milani”, storie di persone che hanno cambiato la loro didattica dopo aver letto “Lettera a una professoressa”, persone che oggi sono in pensione, non sono più nella scuola: oggi manca nella scuola quella forza del cambiamento, c’è un problema generazionale. Se ci fermiamo a dire che l’integrazione è un fenomeno civile valoriale meraviglioso ma non si danno ai docenti gli strumenti, è finita.

Quali caratteristiche avrà la scuola inclusiva dei prossimi vent’anni?
Il punto fondamentale è la flessibilità, la destrutturazione. Per fare una scuola inclusiva devi rompere gli schemi: del curriculum a tutti i costi, dell’orario, dei ruoli, delle aule… La rigidità è il contrario dell’inclusione, non puoi fare inclusione in una scuola rigida. È necessario introdurre elementi di flessibilità altrimenti siamo sempre a capo. L’altro punto è che i grandi assenti di questo discorso sono i dirigenti. Sono oberati di impegni, hanno da gestire tre scuole, non sono preparati… di fatto c’è una carenza fortissima di leadership inclusiva. Ci sono in Italia moltissimi insegnanti bravi, ma vanno valorizzati; così come gli altri vanno aiutati a fare passi avanti: il problema è che non c’è una leadership forte, vera, orientata all’inclusione. Avere leader forti, autorevoli, sarebbe strategico.

Foto L. Mashall / Unsplash

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