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Cooperazione allo sviluppo: le occasioni mancate dell’Italia

Non è togliendo pochi milioni di euro di investimenti in aiuti (6,5) al Tunisi, come ha fatto il ministro degli Esteri Di Maio qualche giorno fa, che si costringe un Paese a fare da gendarme, non lo si aiuta così ad uscire dall’emergenza in cui si trova. Servono investimenti strutturali. Una lezione che il responsabile della Farnesina sempre non aver capito, nemmeno nella Beirut infuocata che in queste ore ospita la visita di Macron. L'intervento della portavoce dell'Aoi

di Silvia Stilli

«Se l'Ue esiste, se l'Occidente esiste, in questo momento deve aiutare la Tunisia (…) unico Paese ad avere mantenuto le promesse della primavera araba e forse non è un caso che sia sotto minaccia». Queste le parole del Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni a Tunisi dopo l’attentato del Bardo, in cui avevano perso la vita nostri connazionali.

In quella occasione il Governo italiano si impegnò a varare un piano di aiuti per il rilancio di un partenariato stabile volto a risollevare le condizioni economiche, politiche e sociali della Tunisia. Nella definizione del quadro possibile di scambi bilaterali si pose l’accento su importanti priorità: incentivare la produzione e l’utilizzo di energie da fonti rinnovabili, per esempio, che faceva sperare in un graduale, ma convinto abbandono delle devastanti trivellazioni petrolifere nel Paese; riconvertire le produzioni agricole e l’allevamento in un quadro di sostenibilità delle comunità e a ridotto impatto ambientale, aprendo la strada a nuove forme di cooperativismo ed economia sociale; rafforzare le istituzioni democratiche con programmi a livello centrale e di promozione del decentramento amministrativo; sostenere la strada del lavoro dignitoso e certo per i giovani attraverso formazione, innovazione e avvio di start up; realizzare interventi di protezione e inclusione sociale con il protagonismo partecipato dell’associazionismo e dell’impresa sociale e culturale, con particolare attenzione all’empowerment di genere; investire nel turismo sostenibile. Si trattava ‘sulla carta’ di costruire un partenariato di lunga durata tra Italia e Tunisia con una visione strategica e un piano strutturato. Fu presa allora la decisione di cancellare parte del debito della Tunisia nei confronti dell'Italia per 25 milioni di euro.

Qualche mese dopo mi trovai a far parte della delegazione della società civile italiana che accompagnò negli incontri a Roma con Governo e Parlamento esponenti del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito proprio nel 2015 del Premio Nobel per la Pace. Le nostre istituzioni confermarono l’impegno per sostenere la fragile e giovane democrazia sorta dalla Primavera Araba con una particolare attenzione alle istanze della società civile. Oggi la situazione difficile della Tunisia, se pure meno apparentemente minacciata dal terrorismo integralista islamico, indica la mancata affermazione della giustizia sociale nella sua interezza e ci presenta il precipitare della crisi economica che mina le fragilissime basi democratiche su cui il Paese si regge. La recrudescenza della destabilizzazione economica e politica è indubbiamente aggravata dalla pandemia, dal senso di instabilità provocata dalla guerra in Libia ai suoi confini ,da cui arrivano le genti in fuga dalle violenze e dalla fame insieme ai trafficanti di esseri umani.

I tunisini approdati in Italia nel 2020 soprattutto sui barconi sono 5mila su 14mila migranti e sono diretti prevalentemente in Francia. Gli sbarchi di questi giorni, che preoccupano il Governo e fanno affermare al Presidente del Consiglio che vanno bloccati come un pericolo prioritario per la nostra sicurezza, secondo Matteo Villa, studioso ed esperto di temi migratori dell’ISPI, che il 27 luglio scorso ha pubblicato un report ad hoc, non sono un fenomeno in espansione rispetto alle tendenze dell’ultimo anno, perché le partenze si sono concentrate in questo mese a causa del lockdown dovuto alla pandemia. Secondo le proiezioni di Villa, nel valutare la tendenza oltre l’eccezionalità post blocco dovuto alla diffusione del Covid-19, alla fine dell’anno gli arrivi saranno 20-25.000, quindi il 90% in meno del 2016. Per quatto riguarda in specifico la fuga dalla Tunisia, occorre prima di tutto tener conto che in Italia non è stato emanato il decreto flussi annuale per i lavoratori stagionali, bloccando proprio la manodopera d’importazione proveniente per vie regolari da quel Paese.

Il Governo italiano sa bene che stabilendo il piano degli accordi per gli ingressi regolari con le istituzioni tunisine si avrebbe la garanzia per un migliaio di lavoratori stranieri di entrare in Italia per cercare lavoro con il proprio passaporto. Il comparto dei produttori agricoli (ma non solo) in Italia denuncia la scarsità di manodopera che mette a rischio la nostra economia, già gravemente colpita dalle conseguenze della pandemia. Con un decreto flussi funzionante verrebbe tolto il mercato ai trafficanti di esseri umani. La crisi sanitaria in tutto il mondo dove ha colpito con gravità e non è stata arginata, si è trasformata rapidamente in crisi sociale, facendo raggiungere numeri di vittime impensabili e colpendo inesorabilmente le fasce più povere.

In Tunisia era già era preesistente alla pandemia una crisi economica cui le istituzioni non sapevano rispondere con misure adeguate e si profilava una crisi politica ancora più preoccupante. Già sul filo del rasoio si era potuto fare un ‘Governo di coesione’. I pochi sussidi ai poveri ed emarginati non arrivano dall’inizio del lockdown, la penuria alimentare è un dato di fatto. Secondo l’Istituto Nazionale delle Statistiche (INS) tunisino, il tasso di disoccupazione nel Paese ha raggiunto il 15,1%: il 28,6% è composto da laureati senza prospettive di lavoro. Nel Sud i tassi di disoccupazione raggiungono oggi oltre il 30%. La regione di Tataouine, scossa da proteste e anche da vittime tra i manifestanti da tempo, è tra le più colpite. Peraltro in questa area della Tunisia le forze dell’IS hanno reclutato i giovani disperati senza prospettive. Un’altra zona colpita dallo stato di miseria e dalla cappa di disperazione è l’arcipelago di Kerkennah, definito ‘porto dei barconi’ o ‘hub della rotta migratoria’, più vicino a Lampedusa che a Tunisi. Una volta era patria di pescatori, un paradiso marino e terreno per i turisti che arrivavano in barca a vela soprattutto o per quanti volevano fare le vacanze in un luogo diverso dalle città balneari della Tunsia. Un luogo che aveva un suo equilibrio di comunità, con regole di division e delle acque di pesca basate sulla reciproca fiducia. Quella Kerkennah non esiste più e non per colpa di chi la abita. Oggi è un simbolo di una crisi economica, ambientale e sociale provocata dallo sfruttamento indiscriminato delle multinazionali del petrolio. La società tunisina Thyna Petroleum e il colosso britannico dell’industria petrolifera Petrofac, accusata di aver corrotto il Presidente Ben Ali, hanno posto le loro trivelle e i loro pozzi a pochi chilometri dalle spiagge della bella Kerkennah, distruggendo l’equilibrio marino e inquinato le acque:fino ad un evento disastroso avvenuto alla fine del 2017, quando le trivellazioni provocarono la maggiore foruscita di ‘maree nere’.

Senza pesca, senza turismo, senza lavoro gli abitanti di Kerkennah sono vittime di un mercato altro: quello dei barconi della morte. Da qui si parte, provenendo dai Paesi centrafricani e dalla stessa Tunisia. Questa la Tunisia di oggi: abbandonata dall’Europa e da quell’Italia che dopo l’attentato del Bardo aveva promesso tanto e che sinceramente ben poco ha investito in termini di aiuti per ripartire da un’economia sostenibile non di sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, da un modello di sviluppo comunitario che valorizzasse il grande patrimonio culturale, ambientale e umano che questo Paese è in grado di offrire. Questa la Tunisia che il Governo italiano vuole tenere sotto minaccia per impedirle di far uscire i barconi, magari dotandola di strumenti e protocolli operativi simili a quelli che sono alla base delle regole di ingaggio della Guardia Costiera nella vicina Libia. Azioni che provocano morti lasciati per giorni in mare da trafficanti in fuga.

Non è togliendo pochi milioni di euro di investimento in aiuti (6,5) , come ha fatto il Ministro Di Maio qualche giorno fa, che si costringe un Paese a fare da gendarme, non lo si aiuta così ad uscire dall’emergenza in cui si trova. Servono investimenti strutturali, di cui allora, nel 2015, parlarono Gentiloni e i colleghi del Governo di Tunisi di allora, per riattivare un’economia che è stata ridotta a nulla per interessi che non riguardano davvero il confine nazionale della Tunisia stessa. Serve una visione di cooperazione internazionale che metta l’Italia, vicinissimo dirimpettaio nel Mediterraneo della Tunisia, in primo piano in Europa nei partenariati efficaci per lo sviluppo.

Non si fermano fughe, traffici di umani e barconi con i divieti e le minacce, ma creando appunto le condizioni per uno sviluppo sostenibile a tutti gli effetti. In un’intervista recentissima a Il Riformista, Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani e componente del Quartetto del Nobel per la Pace, ha detto: “Un investimento sul futuro. L’Europa non deve finanziare ‘gendarmi’ o carcerieri a garanzia della sicurezza delle sue frontiere esterne. Se si vuole far desistere decine di migliaia di persone in fuga da guerre e dalla povertà assoluta, occorre offrire loro una speranza di vita, un futuro dignitoso. Per migliaia di disperati l’alternativa concessagli è morire in mare o essere rinchiusi in lager come quelli in Libia. L’umanità sta affogando nel Mediterraneo. Nessuno sogna di fare il migrante, perché quello non è un sogno ma un incubo. Offriamo loro una valida ragione per restare. Perché di fronte alla disperazione di chi sa di non aver più nulla da perdere non esistono muri che tengano». Parole semplici. Chiare, pensiero razionale. Assai poco diverse da quelle pronunciate da Gentiloni 5 anni fa: oggi, che ha un ruolo importante in Europa, vorrei tanto che ribadisse quei concetti.

Con la posizione ricattatoria miope che il Governo Conte ha scelto di avere nei confronti del fragile Governo tunisino, si rischia di rompere definitivamente ogni speranza per il nostro Paese di svolgere un ruolo da protagonista nello scenario mediterraneo. Questo errore strategico e politico, peraltro, mette in seria difficoltà le imprese e le organizzazioni di cooperazione internazionale italiane attive in Tunisia con programmi di sviluppo.

In queste ore avremmo in tanti sperato che in un altro scenario geopolitico, quello mediorientale, in una Beirut semidistrutta, si potesse vedere il ministro degli Esteri Luigi Di Maio arrivare sul luogo della drammatica esplosione per impegnarsi ad avere un ruolo determinante nell’auspicata task force europea per la ricostruzione. Invece c’è Emmanuel Macron oggi in Libano a prendersi onori e applausi. L’Italia nel 2006, a seguito di una guerra devastante, per molti anni aiutò il Paese dei Cedri a ricostruire economia, unità nazionale e a ripartire con programmi importanti di cooperazione internazionale. Perché era evidente che accanto alla presenza militare di UNIFIL era determinante che ci fosse quella politica, dato il posto delicato e centrale nell’area Medio Orientale del Libano. Nel 2020 l’Italia ha deciso di non investire in un futuro di Pace e sicurezza e in relazioni diplomatiche strategiche nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Prendiamone amaramente atto.

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