Cultura

The Shape of Water. Un raffinato E.T. in salsa Jalapeño

La recensione dell'ultima fatica di Guillermo Del Toro pluripremiato alla kermesse italiana. «La sensibilità un po’ folle e iconoclasta che gli viene universalmente riconosciuta lo ha portato a rapportarsi con la dirompente attualità, in un confronto dove la causa e l’effetto si inseguono, traendone un prodotto che diventa una poetica denuncia sulla gestione del diverso, in chiave vintage ma estremamente contemporanea»

di Federico Mento e Lorenzo Pinto 

Quando nel lontano 1981 il giovane ma già talentuoso Steven Spielberg, si recò presso gli Studios della Columbia Pictures col copione di “E.T.” sottobraccio, si sentì rispondere che non avrebbero mai prodotto quel che consideravano alla stregua di “uno stupido film della Walt Disney”. Inutile sottolineare come questa precipitosa stroncatura avrebbe poi consolidato la fortuna della rivale Universal, consacrato il cineasta nell’olimpo dei grandi e modificato profondamente il linguaggio della science fiction a venire. Non più “La guerra dei Mondi” o i “baccelloni” del Dottor Quatermass”, non soltanto la saga del temibile “Alien”. Spielberg attua con il suo extraterrestre mite e indifeso quell’opera di ribaltamento etico che aveva iniziato pochi anni prima con “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo”, e che verrà poi risolto dalla figura dell’alieno taumaturgo in “Cocoon” di Ron Howard.

La grande svolta, all’epoca si manifestò con l’introduzione nella sceneggiatura di concetti rivoluzionari: l’umanità dell’alieno, dello straniero per antonomasia, del monstrum, era esaltata mettendola a confronto con la perduta umanità del mondo istituzionale, quello riservato all’uomo adulto, al decisore. L’interazione piena e scevra da condizionamenti, avviene nel capolavoro di Spielberg attraverso la comunicazione infantile che si instaura tra i “bambini” delle due specie, umana e aliena, in una spontanea azione di protezione del soggetto più debole ed esposto, che culminerà poi nella celebre scena finale della fuga in bicicletta, con una totale rottura di tutte le convenzioni codificate dal civile consorzio.

Impossibile, rifacendosi al trailer e alla sceneggiatura del film di Guillermo Del Toro, pluripremiato in questi giorni al Festival Di Venezia, non riconoscere un trait d’union col vecchio E.T., nella poetica con la quale il regista messicano affrontata il suo “The Shape of the Water”.

La sensibilità un po’ folle e iconoclasta che viene universalmente riconosciuta a Del Toro, di origine messicana e ben considerato e rispettato anche dall’audience americana, porta infatti il regista a rapportarsi con la dirompente attualità, in un confronto dove la causa e l’effetto si inseguono, traendone un prodotto che diventa una poetica denuncia sulla gestione del diverso, in chiave vintage ma estremamente contemporanea.

In fondo, credo che abbia soltanto bisogno d’affetto

Marilyn Monroe

Il commento dell'attrice uscendo dal cinema dove danno Il mostro della Laguna Nera. Da: Gli uomini preferiscono le bionde, 1956, Regia di Billy Wilder

Il diverso qui è mutuato, con raffinata eleganza, dalla mitologia culturale americana post-bellica legata al concetto di “nemico interno” (anche indigeno, non bianco, comunista). Non tanto ai catastrofismi apocalittici scatenati dall’esperienza, anche tecnologicamente devastante del conflitto, ma ben più invece alle subdole logiche di difesa della Guerra Fredda, alla strenua lotta maccartista contro il nemico politico, il culturalmente non affine. Il monstrum, nella sua accezione latina più negativa e sconvolgente, è infatti endemico: rappresentato nientemeno che dal classico “mostro della laguna”, o “uomo-branchia”, che dir si voglia.

La vicenda si dipana così nella nascita di un rapporto d’amore progressivo tra la rinvenuta creatura spaventosa, rinchiusa e speculata nel tipico laboratorio di scienziati federali, e l’unico essere con cui riesce a interagire: un’umile inserviente sordomuta, l’immigrata Elisa Esposito (bravissima e premiata Sally Hawkins) amica unicamente del suo dirimpettaio omosessuale e di una combattiva afroamericana, in un ideale gruppo di freaks discriminati, e se tollerati, solo perché dai tratti umani.

Il messaggio sociale è fin troppo evidente, a cominciare dalla produzione della pellicola. Affidata infatti non già alla Fox tout-court, ma alla sua derivata Searchlight Pictures, già produttore di noti film indipendenti come “Full Monty”, “The millionaire”, “13teen”, “Little Miss Sunshine”, “12 anni, schiavo”, “Thank you for smoking” per citare solo alcuni titoli col maggior riscontro di critica e botteghino. Una filiazione, la Searchlight, che manifesta la volontà già riscontrata in molti dei colossi industriali, di affacciarsi al nuovo Millennio dotandosi di strumenti di lavoro, dichiaratamente finalizzato all’elaborazione di un pensiero etico.

Efficace, nello specifico, la scelta di inserirsi in un contenitore come quello del Festival del Cinema di Venezia, caratterizzato in questa particolare edizione da tematiche prepotenti ed attualissime, testimoniate nelle opere presentate o in concorso, come il documentario di Abel Ferrara sul coacervo capitolino di Piazza Vittorio, o quello biografico su Don Milani e l’inclusività dell’istruzione, fino alle prese di posizione della giuria e di alcuni registi ed attori, sull’irrisolto caso Regeni.


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