Cultura
Influencer, perché esistete?
Sono delle normali celebrities che utilizzano il web. In senso pubblicitario sono dei banalissimi testimonial, con tutti gli equivoci e i limiti dei testimonial pubblicitari classici. Esistono perché qualcuno li segue
Tutte le volte che sento parlare di influencer mi viene in mente una storia raccontata da Marco Carnevale (pubblicitario di fama, nonché grande esperto di nefandezze digitali nascoste sotto roboanti promesse di rivoluzione dei linguaggi e della comunicazione: le racconta qui, andate a leggerle, sono gustosissime).
La storia è questa: Ariana Renee, in arte @arii, avvenente signorina californiana con quasi 3 milioni di follower su Instagram e poco meno di 10 milioni su Tik Tok, aveva messo in vendita 36 (trentasei, non trentaseimila) T-shirt siglate col suo marchio personale. Risultato? Non ne ha venduta neanche una. Zero. Nada. Dice Carnevale: «In un mondo in cui chiunque può acquistare online un pacchetto di 10.000 follower attivi per 135 dollari semplicemente googlando “buy Instagram followers”, chi si affida bendato e con le mani legate al famoso influencer marketing o ha il coraggio di un leone o ha il cervello di una gallina».
Si deve fare attenzione, insomma. A volte si parla di un fenomeno che di fenomenale non ha nulla. Altre volte, però, i follower sono reali, eccome, e sono milioni. Magari non proprio tutti reali… però molti sì, e questo è più che sufficiente, in comunicazione, a muovere fiumi di denaro.
Sfoglio la classifica più recente degli influencer italiani – senza alcun pregiudizio ma conscio di inoltrarmi in un mondo che non è esattamente il mio – e vedo che al primo posto c’è, naturalmente, Chiara Ferragni, con 86,9 milioni di interazioni sui vari social (fonte: sensemakers.it). Al secondo posto, staccato di un bel po’, Gianluca Vacchi (pensavo fosse sparito per sempre!) con 15,7 milioni. Poi Fedez, Diletta Leotta, e una serie di nomi che non conosco fino al 15esimo posto di Giulia de Lellis, che ricordo per gli improperi contro di lei lanciati da lettori e scrittori “impegnati”, inviperiti dal fatto che il suo libro Le corna stanno bene su tutto, ma io stavo meglio senza avesse raggiunto la cima delle classifiche di vendita.
Sono incuriosito. Scelgo un nome a caso tra quelli che non conosco: Alice Campello, 4 milioni e rotti di interazioni che le valgono il decimo posto in classifica. La cerco su Google. Ok, se ho ben capito è una modella, fidanzata del calciatore Alvaro Morata. Uhm. Che ha di speciale? Proviamo Paola Turani: ottavo posto con 4,4 milioni di interazioni. Modella e influencer di Bergamo. Ok, ma son tutte modelle qui? In effetti, su 15 nomi 10 sono di donne – tutte belle – tre di uomini (due dei quali mariti di influencer donne e uno il già citato Vacchi), e due sono nomi collettivi: Gli Autogol e ClioMakeUp, di cui non so nulla. Il mondo “influencer” è dunque un mondo a trazione femminile, dove quei pochi uomini che ci sono lo devono, perlopiù, al fatto di essere mariti e compagni di donne più importanti di loro? Sembrerebbe. Viene da chiedersi se è qui, in questa bolla fatta di foto con i filtri Instagram e sorrisi di plastica, che il femminismo di lungo corso ha finalmente raggiunto il suo scopo di rovesciare la società patriarcale…
Mi affido ancora all’amico Carnevale per capirci qualcosa: «Quasi tutti gli influencer che dominano le classifiche sono influencer perché prima sono qualcosa d’altro: star del cinema, dello sport, della politica o della pop music… modelle, mogli e mariti di star, chef, eccetera. Il 90% di questi personaggi deve la sua popolarità (e i suoi follower) alla tv: come del resto è il caso nostrano di Beppe Grillo, che senza la sua straordinaria popolarità televisiva non sarebbe mai riuscito a lanciare con quei numeri il suo famoso blog, né tantomeno a creare un movimento politico di quelle dimensioni e risonanza. Tutt’oggi basta consultare le classifiche di popolarità degli influencer nostrani per verificare che la stragrande maggioranza di loro vengono da “Amici” di Maria De Filippi. In questo senso, gli influencer non sono niente di nuovo. Sono delle normali celebrities che utilizzano il web – attivando online gli stessi meccanismi di sempre: affezione, curiosità, ammirazione, invidia, sarcasmo, ossessione sessuale eccetera. In senso pubblicitario sono dei normalissimi testimonial, con tutti gli equivoci e i limiti dei testimonial pubblicitari classici. Poi ci sono i fuoriclasse. La più rappresentativa dei quali è indubbiamente la Ferragni. Ma la Ferragni non è una opinion leader. La Ferragni è un “prodotto”: un prodotto dell’entertainment. Una star anomala e nuova in quanto creata online, ma una star. Il suo pubblico la segue, la ammira, si proietta nella sua vita da sogno come faceva con Liz Taylor negli anni Cinquanta – anche se con una incomparabilmente maggiore “prossimità” consentita dal medium – e ne acquista la riproduzione in forma di bambola, la surreale acqua minerale a otto euro la bottiglietta eccetera. Ma l’acqua di Lourdes della Ferragni non è un prodotto: è un prolungamento della Ferragni, perché ha sopra il suo nome. È uno dei frammenti delle lenzuola d’albergo in cui dormirono i Beatles al Plaza di New York, che vennero messi in vendita nel 1964. Non è un prodotto “consigliato” da un influencer. È un frammento della sua celebrità. Gli altri – molti, moltissimi degli altri – non erano nessuno e non sono nessuno. Sono gente che compra online pacchetti di follower falsi (se ne trovano anche di “attivi”, capaci di lasciare brevi commenti o di stabilire elementari interazioni). Naturalmente, il mercato truffaldino dell’adtech si sta orientando verso costoro. Già, perché gli influencer di primo piano hanno dei difetti fisici molto gravi: sono molto costosi, sono pochi e sono già presi».
È tutto abbastanza chiaro. Resta una riflessione da fare, radicale: ma ’sti influencer, poi, perché esistono? Perché c’è chi li segue. È lapalissiano. Ma anche limpido e opaco ad un tempo. Limpido: ci sono da sempre. Alessandro Magno era un influencer. E Napoleone. E i Beatles. E Roberto Baggio. E Salvini. E Jennifer Lopez. E chi più ne ha… Opaco: cosa ci muove a seguire qualcuno? Si badi bene: lo facciamo tutti. Gli intellettuali non si sentano dispensati o moralmente superiori perché il loro cuore batte per Immanuel Kant invece che per la Ferragni. Sempre di cuore che batte si tratta, e la domanda riguarda anche loro: perché seguiamo qualcuno? Certo, non esprimiamo la stessa devozione per chiunque. Il modo con cui ci mettiamo sulle tracce dei nostri figli non è lo stesso con cui curiosiamo nelle vicende private del nostro cantante preferito (per alcuni sì…). Il modo con cui ci abbandoniamo a un amore non è lo stesso con cui tifiamo per una squadra di calcio (per alcuni sì…). Il modo con cui pendiamo dalle labbra della Ferragni non è lo stesso con cui ci mettiamo in ascolto della nostra figura morale di riferimento (per alcuni sì…). Sta di fatto che “seguiamo”. Perché? Quale bisogno irresistibile, ingovernabile, quale impulso primario ci spinge ad avviarci dietro a qualcuno, a indicarlo come la nostra guida, il nostro faro? E a quale esigenza diamo soddisfazione quando – una volta avviati sulla strada del nostro “influencer” di riferimento – siamo felici di riconoscerci nei volti di chi ha fatto la nostra stessa scelta, e di fare “comunità” con essi? Siamo, alla fine dei giochi, solo dei pecoroni pronti a gettarci nel fuoco per il leader improvvisato di turno? Non ne sono convinto. Forse obbediamo, semplicemente, a quell’intuizione originaria, a quel presentimento per cui, sotto sotto, sappiamo che la vita ha senso, anche se non sappiamo dire quale e ce ne sfuggono i contorni principali. Forse obbediamo a quell’impulso che ci fa dire, con Cesare Pavese: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Sappiamo benissimo che i nostri beniamini, gli amati influencer che seguiamo con devozione quasi religiosa, non sono poi così più avanti di noi su questa strada. Ma ci piace crederlo e anche, un po’, farlo credere a loro.
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