Formazione

Mangio dunque sono: quel nesso sottile fra cibo e pensiero

Discutiamo di "km zero", di filiera corta - temi legittimi e importanti - davanti a un buon caffè, dimenticando che se c’è qualcosa che nella storia europea contraddice la filiera corta è proprio il caffè. Questo non toglie bontà agli argomenti sullo slow food, a patto di rispettarne la complessità che è anche ibridazione, scambio, dimensione relaziona e sociale del cibo. Perché, come aveva intuito il filosofo Ludwig Feuerbach, siamo davvero ciò che mangiamo

di Marco Dotti

Quando diciamo «cibo», insegnava Claude Lévi-Strauss, uno dei pensatori più longevi e fecondi del XX secolo, dovremmo intendere «pensiero». Cultura. Questo perché l’animale si nutre, ma l’uomo mangia.

Il cibo è l'inizio del sapere

Cogito ergo sum, certamente, ma anche edo ergo sum: mangio dunque sono. L’uomo, infatti, non si limita a divorare (latino: edere) gli alimenti, ma mangiando li pensa. Pensandoli, spiega molto bene Andrea Tagliapietra, filosofo e docente di Storia delle idee all’Università Vita e Salute, che ha da poco curato l’edizione di un classico del pensatore tedesco Ludwig Feuerbach (L’uomo è ciò che mangia, trad. di Elisa Tetamo, Bollati-Boringhieri, Torino 2017), li vive. Li vive perché non può che inserirli in quella complessa rete di mediazioni e relazioni che fanno di lui un animale eminentemente simbolico. Il cibo, d’altronde, «è l’inizio del sapere». L’animale si nutre, l’uomo mangia. L’uomo «non si limita a mangiare gli alimenti, ma mangiando li pensa», spiega Tagliapietra, inserendoli in quella complessa rete di mediazioni e relazioni che fanno di lui un animale eminentemente simbolico.

Il cibo, scriveva d’altronde proprio Feuerbach, «è l’inizio del sapere». Non basta infatti che un alimento «sia buono da mangiare – insegnava ancora Lévy-Strauss – bisogna che sia buono da pensare». Non vale forse il detto «siamo quello che mangiamo». introdotto proprio un filosofo, Ludwig Feuerbach?

Il pensiero a tavola: la sfera conviviale

Roba da filosofi o raffinati intellettuali? Non proprio. Prendiamo Immanuel Kant e il testo con cui fonda l’antropologia (filosofica) occidentale: l’Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798). Con che cosa si apre questo libro, fondamentale per l’Europa di ieri, di oggi e di domani (se vorrà avere un domani)? Si apre con una domanda semplice e al contempo radicale: «che cosa è l’uomo?» La domanda riguarda l’uomo, cioè tutti. E dove, osserva Kant, è lecito più che mai, dove è più che mai e più che altrove doveroso porsi questa domanda essenziale… se non davanti a del cibo? Anzi, in quello spazio della relazione e del confronto che lui definisce «società della tavola», in tedesco: Tischgesellschaft. In questa società, le cose di cui si parla e di cui si dibatte sono quelle della vita, quelle del vissuto concreto degli uomini. Quelle che coinvolgono tutti, senza distinzione tra osservatori e osservati. Ecco a cosa ci chiama, il cibo.

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Mangiare o consumare: fatti sociali totali

Oggi, però, le cose si sono fatte più complesse. Il mero “mangiare” è diventato un fenomeno sociale totale, una pratica talmente pervasiva che eccede non solo la relazione, ma persino il momento dell’acquisto e del consumo e, declinata in solitario, non ha più spazio e tempo suoi propri: l’ossessione estetica per il cibo – guardato o cucinato – è preclusione alla relazione con l’altro. Secondo Ferdinando Scianna, uno dei più importanti fotografi italiani, da anni impegnato a riflettere sul tema, il cibo è «diventato un fenomeno da consumare con gli occhi». Più che passione, saremmo qui nel campo, letterale, della pornografia, ovvero della sovraesposizione della merce e di ciò che merce non è, ma attraverso l'immagine lo diventa. Se la pornografia è la trasformazione delle pulsioni dell’uomo in merce. E in un mondo in cui l’immagine è tutto, anche il cibo diventa merce-spettacolo. Forse per questa ragione, quest’intima aderenza del cibo e delle sue pratiche alle pratiche del relazionarsi e quindi del pensiero, la “kultura” con la “k” del “babel food” come l’ha definita un altro antropologo, Franco La Cecla (Babel food. Contro il cibo kultura, il mulino, Bologna 2016), tende a divorarsi tutto, complessità in primis.

Il mercato rionale: luogo di resistenza

Cibi buoni a non pensare, adatti a non farci capire – e gustare – nulla. Una complessità che non può essere mai disgiunta dalle pratiche, dal fare e dal relazionarsi facendo.

La società della tavola, da spazio di riflessione e autoriflessione è diventata non-luogo di dispersione. Non è un caso se molta della disperazione contemporanea – dalla bulimia all’anoressia alla fitness addiction – è legata a non-luoghi del cibo quando non a una vera e propria gastromania.

Un fenomeno globale che trova poca resistenza. Salvo in luoghi dove il nostro rapporto col cibo si fa concreto, vitale e più denso che mai: i mercati rionali. Qui qualcosa resiste e continua a resistere dando forma all’inclusive city, la città veramente inclusiva. Quella che tocca i cinque sensi, non escludendo il sesto: il pensiero.

Il pensiero scende in strada e, spiegano le ricercatrici Sally Roever e Caroline Skinner, nel mercato si fa azione, relazione, uso strategico e intelligenza del bene comune. Autrici di “Street vendors and cities”, studio sul ruolo dei mercati nelle ridefinizione delle politiche urbane e delle policies locali, Roever e Skinner ricordano che non c’è, nel mondo, possibilità di definire una vera strategia di inclusione urbana senza passare dal mercato e dalla sua economia, formale e informale. Si ha un bel dibattere di smart cities, se non si tiene conto di quei luoghi naturalmente intelligenti – in termini di filiera corta, uso e riuso, generatività del lavoro, innovazione dal basso – che sono i mercati di quartiere.

Nell’aprile del 2014, l’IEMS ha pubblicato un documento molto importante: The Urban Informal Workforce: Street Vendors. I venditori di cibo dei mercati rionali, si legge nel rapporto, sono veri angenti di sviluppo territoriale ed economico. Sono fonte di impiego (si calcola che il 24% del lavoro, nell’Africa subsahariana, sia in questo settore), di corretta gestione delle risorse, di economia virtuosa e circolare. Sono loro che, oltre a garantire un rapporto virtuoso con lo spazio pubblico e, col loro lavoro, in una misura stimata dell’84%, generano lavoro per altri, portando risorse alla città (pagamento di licenze, permessi per occupazione di spazio pubblico, bollette idriche ed elettriche) e alimentando una filiera corta: quasi il 77% della frutta e della verdura venduta nei mercati di quartiere viene da produttori.

L'economia informale ci salverà (se salveremo l'economia informale)

A questa economia, si lega un’economia informale e di scala che, ad esempio, permette a certe ore del mattino o della sera, anche ai più poveri di avere cibo o impieghi temporanei per poco. Nei mercati di quartiere, la campagna ricorda alla città la propria presenza e quanto sia necessaria, questa presenza.

I mercati di quartiere e di strada sono tra le ultime zone miste, dove costruzione, uso e riuso spesso spontaneo e temporaneo, permettano una gestione ottimale dello spazio. Ottimale alle relazioni tra persone che quello spazio abitano e vivono. I mercati come nuova Tischgesellschaft, come società della tavola, dunque. Dove il cibo diventa medium culturale per una società conviale (così la chiamava Ivan Illich) che si muove oltre quella dell’immagine. Un cibo capace di farci aggiungere alla domanda kantiana – che cos’è l’uomo – anche quella più propriamente economica, ma non meno cruciale: dove vuole andare?

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