Non profit
Un welfare sotto stress: come uscirne?
Tra vincoli di bilancio e nuove richieste di protezione sociale, i sistemi di welfare nazionali sono andati inevitabilmente sotto stress. Uno Stato che torni attore protagonista di una solida politica strategica di investimenti sociali e la valorizzazione di tutto ciò che è rimasto fuori dal mercato (dalla cura familiare al volontariato) possono essere una buona medicina per uscirne. Ne parliamo con Andrea Ciarini, autore di “Politiche di welfare e investimenti sociali”
Lui si chiama Andrea Ciarini ed è l’autore, insieme a Colin Crouch, Silvia Girardi, Anton Hemerijck, Massimo Paci, Edoardo Reviglio, Stefano Ronchi e Valeria Pulignano, di una riflessione a tutto tondo sulla crisi che ha investito – ormai da tempo – i sistemi di welfare nazionale.
Professore associato di sociologia dei processi economici, organizzativi e del lavoro presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, Ciarini sintetizza appunto in un volume dal titolo Politiche di welfare e investimenti sociali (ed. Il Mulino) il percorso che permetterebbe di uscire dallo stress in cui sono ingessati i sistemi di welfare. Tra vincoli di bilancio e nuove richieste di protezione sociale.
Cosa è successo in questi anni di austerity europea?
Sono diversi i problemi con cui si confrontano i sistemi di welfare europei. Alcuni hanno a che fare con l’impatto della crisi, altri a ben precise scelte di policy che negli anni precedenti hanno contribuito a peggiorare più che a migliorare il rendimento delle politiche di welfare. Si pensi alla diffusa tolleranza verso le disuguaglianze tipica del neoliberismo o alla polemica contro le distorsioni distributive dello stato sociale. Il risvolto è stato per un lungo periodo l’accettazione dei tagli alla spesa sociale, ai servizi pubblici e al perimetro dello Stato e di contro l’accettazione dell’austerity e delle riforme strutturali come un dogma indiscutibile. Nonostante la richiesta di un cambio di passo, l’agenda sociale europea ha fatto molta fatica, almeno fino a oggi, a uscire da questa visione ortodossa della disciplina di bilancio.
Oggi però è importante tornare ad investire?
Oggi più che mai sulla tenuta del welfare si misurano questioni che riguardano da vicino i temi della crescita, dell’innovazione sociale, della creazione di lavoro e della ripresa degli investimenti. Gli investimenti sulla scuola, sui servizi di cura, sulle infrastrutture sociali e sanitarie, sulla formazione permanente e sulla ricerca, non possono essere più derubricati a costi da tagliare. Sono riforme a tutti gli effetti produttive, perché consentono come ha scritto Colin Crouch nel primo capitolo di questo libro di rispondere meglio ai bisogni sociali emergenti e allo stesso tempo favorire una via alta alla competitività, evitando la trappola della competizione basata solo sul basso costo del lavoro che porta con sé specializzazioni produttive a basso valore aggiunto. Per l’Italia questa è una vera e propria emergenza.
Investire sul welfare è quindi un’azione per favorire la crescita?
Ecco, investire in questi ambiti di policy, investire sul welfare, è un modo utile anche per favorire una crescita diversa da quella in cui il nostro paese è rimasto incagliato in questi anni. E non dimentichiamo un’altra cosa: investire nei servizi di welfare è un buon modo anche di creare nuova occupazione, così come nuove occasioni di impresa sociale, perché dietro ci sono bisogni non coperti e una domanda di lavoro comunque in espansione (pensiamo all’impatto dell’invecchiamento della popolazione), che andrebbe governata, non lasciata al “fai da te” o peggio al sommerso, la lavoro nero. Anche qui è inutile dirlo, abbiamo bisogno di investimenti. Risorse in grado di attivare un moltiplicatore economico e una migliore qualità della vita.
Nel suo libro ci sono diversi contributi: cosa li tiene insieme?
I contributi raccolti in questo libro affrontano da diverse angolature queste tematiche, mettendo al centro dell’analisi due questioni fondamentali. La prima riguarda la promozione dell’azione strategica dello Stato nella mobilitazione di investimenti pubblici e privati in favore delle infrastrutture sociali e di una rinnovata agenda di investimento sociale. La seconda punta a rendere compatibile questo orientamento con la valorizzazione delle attività fuori mercato, come la cura, l’impegno civico e volontario, la formazione come diritto universale del cittadino legato a una diversa combinazione tra tempi di vita e tempi di lavoro. Si tratta di due ambiti distinti ma strettamente collegati tra loro.
In cosa consiste questa idea di ribilanciamento tra tempo di vita e tempo di lavoro?
Qui entrano in gioco diverse questioni. Come dicevo all’inizio i problemi che oggi insistono sui sistemi di welfare europei non riguardano solo l’impatto della crisi. Ma anche processi di più lungo periodo, come la transizione tecnologica. Non sappiamo quanto lavoro distruggerà la tecnologia e quanto di nuovo ne contribuirà a creare. Sappiamo che in questo momento colpisce le competenze medie, i lavori (intellettuali e manuali) più routinari e standardizzabili, in una pressione al ribasso che colpisce parti sempre più ampie di ceto medio. Sappiamo però anche che la tecnologia sicuramente avrà un impatto sulla produttività o quanto meno implicherà una riduzione di costi per le imprese (si produce di più con minore apporto di lavoro umano).
Dunque?
Dunque le alternative come scriviamo con Massimo Paci nell’ultimo capitolo possono essere riassunte in tre direttrici. La prima punta al rafforzamento degli ammortizzatori sociali e soprattutto delle politiche di contrasto della povertà, così da venire incontro alle richieste di protezione da parte di chi rischia di più di subire gli effetti disruptive della transizione tecnologica. La seconda prevede l’istituzione di un reddito di base incondizionato per tutti, ovvero il basic income. La terza, ed è quella che prediligiamo, punta invece a una riduzione controllata dell’orario di lavoro di mercato a parità di salario e di conseguenza a una liberazione di tempo in altre sfere di attività fuori mercato economicamente e giuridicamente riconosciute, come diritto universale da riconoscere a tutti i cittadini.
Cosa ci possiamo aspettare dai cambiamenti che si profilano a livello europeo?
Mettere in campo una strategia di questo genere richiede capitali e una azione strategica dello Stato. È possibile che per una parte di questi investimenti, possano essere coperti dai nuovi fondi europei, dal MES (se davvero non condizionato) al nuovo Recovery fund. Ma non è solo al tipo di strumenti che bisogna guardare. Va affrontato il nodo della direzione da dare agli investimenti, cioè porsi la domanda su cosa investire, oltre che sul quanto.
Quindi, su cosa investire?
Una strategia di investimento a lungo termine sulle infrastrutture sociali e sulle reti di welfare locale richiede ad esempio di semplificare competenze istituzionali che a volte appaiono soprapposte. Questo problema non riguarda solo i rapporti tra Stato e Regioni, ma anche il sistema istituzionale deputato al coordinamento degli investimenti. Va superata la sola logica dell’incentivazione finanziaria, investendo fortemente sulla “messa a terra” degli investimenti e sull’assistenza tecnica. Per fare questo, vanno resi protagonisti gli enti locali e gli attori territoriali. La connessione con i territori è un elemento strategico, sia per la messa a terra degli investimenti, sia per l’impatto positivo che ne potrebbe scaturire anche sugli attori sociali (imprese sociali, terzo settore, associazionismo). Per realizzare questo non bastano tuttavia gli strumenti finanziari. Occorre investire sui processi partecipativi e sulla concertazione territoriali come era nelle corde di una grande legge, rimasta inattuata per mancanza di finanziamenti, la 328/2000. Quest’anno ricorrono i vent’anni dall’introduzione di questa fondamentale riforma, ancora attuale nei suoi principi.
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