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Nuove proteste a Moria: il racconto di Nawal Soufi

Proteste sedate con lacrimogeni, nel centro di Moria, sull’isola di Lesbo dove migliaia di migranti sono costretti a vivere da diversi mesi, in condizioni sempre più difficili. Testimone degli scontri, Nawal Soufi, l’attivista italo-marocchina da sempre impegnata per i diritti dei migranti

di Ottavia Spaggiari

È sempre più tesa la situazione nel centro di Moria, sull’isola di Lesbo, dove negli ultimi giorni sono scoppiate nuove proteste per le condizioni in cui i migranti sono costretti a vivere ormai da mesi. «Molte persone sono qui sull’isola da quattro, cinque mesi, chi addirittura da un anno (…) Non è stancante, è veramente umiliante.», racconta in un messaggio vocale Nawal Soufi, l’attivista che da anni riceve le chiamate di soccorso da persone in pericolo nel Mar Mediterraneo, e che a Moria è stata testimone degli scontri. «Le proteste sono sfociate in un incendio dentro il campo, ci sono stati degli scontri con la polizia con le pietre, la polizia stessa prendeva le pietre e le rilanciava ai migranti. Il tutto è diventato più serio quando i poliziotti hanno usato i lacrimogeni in presenza di famiglie e bambini, persone anche malate, con problemi di asma». Dietro agli scontri la tensione sempre più alta provocata dai tempi lunghissimi di attesa per le richieste di asilo e dalle condizioni igieniche e logistiche estremamente precarie in cui le persone sono costrette a vivere, aggravata dalla sensazione, definita da Nawal Soufi di «Sentirsi prigionieri di un’isola» e avere una libertà di movimento estremamente limitata. Secondo l’attivista infatti, le autorità cercano di scoraggiare i migranti dall’uscire dal campo in ogni modo, per evitare l’incontro con i turisti. «In una settimana vengono fermati 1, 2 o 3 volte, vengono portati al posto di polizia, gli vengono controllati i vestiti, la borsa. È per scoraggiare i migranti a scendere in città e mettersi in contatto con i turisti, o sedersi nei bar dove ci sono i turisti o nelle spiagge. C’è una strategia del terrore vergognosa su quest’isola».


A Lesbo i migranti sono 4.521, la maggior parte arrivati dopo marzo 2016, quando il discusso accordo UE-Turchia ha stretto l’accesso a questa porta d’Europa sull’Egeo. Secondo l’Unhcr infatti, se lo scorso anno le persone arrivate in Grecia sono state 173.450, dall’inizio del 2017 sono appena 10.250 i migranti approdati sulle coste greche. Il prezzo per la riduzione del flusso di arrivi però, secondo molte organizzazioni che si occupano di diritti umani, è enorme, non solo per chi dalla Turchia non riesce più a partire ma anche per chi arriva sulle isole greche e rimane intrappolato in un limbo giuridico per mesi e mesi. « Stanno rigettando moltissime pratiche, tra cui quelle di molti siriani», continua Nawal Soufi, secondo cui, tra le ragioni delle proteste c’è anche il sistema di richiesta d’asilo. «Dopo lo sbarco si va dentro l’hotspot per quella che è l’identificazione, si fa un incontro e qui iniziano tutte le domande: quanto tempo hai vissuto in Turchia, come vivevi in Turchia, pensi che sia un paese sicuro per te. Non viene fatta quasi nessuna domanda sui paesi d’origine e sui motivi che ti hanno spinto a emigrare. Un ragazzo siriano, ad esempio, mi ha detto “Durante la mia udienza mi sembrava di essere turco e non siriano, non hanno voluto sapere di come mio fratello è morto davanti ai miei occhi, non hanno voluto sapere di quello che stanno vivendo i miei genitori nei campi profughi in Siria. Volevano solo dettagli sulla mia vita in Turchia, dove deportarmi, senza rendersi conto che la Turchia può prendere la persone in territorio turco e riconsegnarla alla Siria”.»

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