Cultura

Per una scuola sicura ma non della paura

Ogni modello organizzativo trasmette un messaggio pedagogico: su questo punto cruciale però oggi c'è ancora poca attenzione. Monica Guerra lo esplicita con chiarezza: «Quel che offriremo ai bambini resterà nella loro memoria, con un imprinting che darà loro un’idea dell’altro e di società che conserveranno nel tempo. Le proposte che faremo dovranno essere in sicurezza, certo, ma non potranno essere idee timide che crescono individui diffidenti uno verso l’altro»

di Sara De Carli

«Una delle poche certezze che ho è questa: la scuola deve riaprire. E deve riaprire tutta, da quella per i piccoli a quella per i grandi». Esordisce così Monica Guerra, ricercatrice e pedagogista dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca nel webinar del Tavolo Saltamuri, di lunedì 11 maggio. «Riaprire e non ripartire perché in questi mesi la scuola non si è fermata. L’ha fatto bene o male, ma non è stata ferma. È stata anzi molto visibile, è entrata nella casa delle persone. Quello che noi docenti siamo sati capaci di mostrare, ha mostrato anche che ci sono cose da rivedere».

Quando e come? Sono questi i temi. «Quando, il prima possibile e in presenza». Come? «Solo in sicurezza, evidentemente. Sicurezza dei bambini, degli insegnanti, dei collaboratori… Ma dopo gli aspetti sanitari, ci sono altri "come". La scuola deve aprire con cognizione ma non a qualunque condizione, quello non sarebbe un buon servizio», sottolinea Guerra. Sul come in questo momento si susseguono documenti di proposta, ci sono servizi che fanno fughe in avanti per poi essere stoppati. «C’è ancora il caos, però a volte il caos è fertile», ammette Guerra.

Ecco allora che la questione del “come” ha una valenza pedagogica che non è competenza del CTS né delle task force. Un come che parla di «competenze trasversali e dialoghi interdisciplinari, tra saperi, degli adulti ma anche dei e con i bambini. Come vuol dire aperture dei territori, senza nessun arroccamento: questo è il momento di abbandonare qualsiasi protagonismo, ciascuno ci deve mettere un pezzo», ha detto la ricercatrice. “Come” vuol dire anche uscire fuori da dove la scuola e l’educazione è avvenuta tradizionalmente, ma facendo attenzione che «fare esperienze all’aperto non è solo uscire». Ecco parole molto chiare su un punto delicato, su cui c'è molta confusione: «La scuola diffusa non è la scuola che svapora all’esterno di sé, disperdendosi. Ma è la scuola che apre e dialoga, che esce e che fa entrare, ma che conferma la propria responsabilità: avere nella mente ogni bambino. Se scuola diffusa è la chiusura della scuola, facciamo attenzione».

La scuola diffusa non è la scuola che svapora all’esterno di sé, disperdendosi. Ma è la scuola che apre e dialoga, che esce e che fa entrare, ma che conferma la propria responsabilità: avere nella mente ogni bambino. Se scuola diffusa è la chiusura della scuola, facciamo attenzione

Monica Guerra

Il “come” significa poi «soluzioni locali, contestuali e sperimentali, là dove sperimentale dovrebbe essere la cifra della scuola sempre, non credo che ci sia una soluzione buona per tutti, mai, a maggior ragione adesso. Ci sono indicazioni buone, giuste. Questo è il momento dell’esercizio più alto e responsabile dell’autonomia scolastica, da che essa esiste».

Dal punto di vista pedagogico, ripensare i modi della nuova scuola significa «preservare ciò che di educativo deve abitare le scuole. Dopo quando e come, allora dobbiamo chiederci perché vogliamo che la scuola riapra e riapra in presenza. Dando risposte buone e chiare. Qual è il portato educativo della scuola, una volta che le sono state tolte le sue coordinate abituali? Che cosa resta? Dobbiamo prestare molta attenzione a quel che metteremo in campo, perché educare è offrire modi di interpretare il mondo».

Ogni modello organizzativo ha in sé una idea pedagogica, quindi va maneggiato con cura: non è solo questione di turni, di ingressi scaglionati, di entrare 15 minuti prima o dopo… Quel che offriremo ai bambini resterà nella loro memoria, con un imprinting che darà loro un’idea dell’altro e di società che conserveranno nel tempo. Le proposte che faremo dovranno essere in sicurezza, certo, ma non potranno essere idee timide che crescono individui diffidenti uno verso l’altro. Servono idee coraggiose

Ecco il punto cruciale, forse finora sottaciuto nei pur tanti dibattiti che sono fioriti: «Ogni modello organizzativo ha in sé una idea pedagogica, quindi va maneggiato con cura: non è solo questione di turni, di ingressi scaglionati, di entrare 15 minuti prima o dopo… Quel che offriremo ai bambini resterà nella loro memoria, con un imprinting che darà loro un’idea dell’altro e di società che conserveranno nel tempo. Le proposte che faremo dovranno essere in sicurezza, certo, ma non potranno essere idee timide che crescono individui diffidenti uno verso l’altro. Servono idee coraggiose». E ancora: «Oggi c’è il rischio di portare indietro i servizi per la prima infanzia a mera custodia e le scuole a mera somministrazione di contenuti e di verifica delle conoscenze. Corriamo il rischio di contrapporre i bisogni e i desideri di insegnanti e famiglie, mentre dobbiamo pensarci solo come alleati. Servono in fretta criteri chiari che orientino. Che possano anche essere rivedibili con l’evolvere della situazione. Serviranno soluzioni straordinarie e divergenti, ricordando che anche la didattica a distanza non ha funzionato là dove c’è stata trascuratezza nel guardare i ragazzi: quando si è provato a guardali non sarà stata la migliore scuola possibile, ma almeno è stata una scuola che non ha perso il suo significato. In questo momento storico c’è un potere trasformativo enorme. Con i piedi ben piantanti a terra e insieme con la testa al cielo».

Photo by M.T ElGassier on Unsplash

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