Welfare
Segregazione dei disabili: incubo del passato o realtà presente?
Sono quasi 280mila le persone che in Italia vivono in “istituti” dove non possono uscire né decidere nulla della propria condizione. E se in decine di casi sono stati accertati reati penali, in moltissimi altri le limitazioni ala libertà personale e il trattamento degradante sono all’ordine del giorno. A Roma un convegno promosso dalla Fish ha scoperchiato per la prima volta una realtà scomoda
Dici “segregazione dei disabili” e immediatamente pensi a stanze buie, letti con catene, vergogna e…tempi passati. Invece il fenomeno della segregazione – almeno secondo la Fish – non è affatto tramontato, anche se le sue forme sono cambiate: parliamo infatti di situazioni «inumane e degradanti» che si possono riscontrare in strutture di carattere abitativo, diurno o riabilitativo, in “istituti” dove le persone con disabilità vivono senza poter uscire né decidere nulla della propria condizione. In Italia esistono «servizi e strutture residenziali dove le persone con disabilità e gli anziani non autosufficienti vivono in condizioni segreganti e subiscono trattamenti inumani e degradanti», hanno scandito i rappresentati della Fish nel primo appuntamento nazionale dedicato al tema a metà giugno, ovvero la Conferenza di Consenso "Disabilità: riconoscere la segregazione" promossa dalla Federazione nell’àmbito del progetto "Superare le resistenze, partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri delle persone con disabilità", con l’obiettivo di restituire centralità a un tema drammatico, troppo spesso considerato marginale o eccezionale.
Ebbene, nel corso dell’evento sono stati presentati numeri impressionanti: secondo i dati in possesso della Fish, sono 273.316 le persone con disabilità ospiti dei presìdi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, di cui l’83% sono anziani non autosufficienti, che nella quasi totalità dei casi vivono in strutture che non riproducono le condizioni di vita familiari. Quando e a quali condizioni un servizio di carattere abitativo, diurno o riabilitativo per le persone con disabilità può essere definito segregante? Quando può esserne richiesta la chiusura o, quanto meno, la cessazione di accreditamento e finanziamento pubblico? Queste le domande a cui si è cercato di rispondere, a partire da fatti oggettivi: nelle strutture sopracitate, nel 2016 l’Arma dei Carabinieri ha rilevato 114 casi di maltrattamenti, 68 di abbandono d’incapace, 16 di lesioni personali e 16 di sequestro di persona. «Accanto a questa brutale e conclamata segregazione» è stato sottolineato dalla Federazione, «si rilevano altre modalità più subdole e ugualmente inumane, pur senza che da ciò derivino condizioni di vita materiali degradanti, maltrattamenti e violenze. Sono gli àmbiti in cui si ripropongono la separazione, l’isolamento, la contrazione delle elementari libertà individuali. Servizi in cui prevale una concezione sanitaria e ospedaliera, che trasforma chi ne è ospite in “paziente”, “malato” e non più in persona con il diritto di vivere normalmente la propria vita e le proprie relazioni interpersonali. E dalla Conferenza di Roma è emerso come queste “residenze totali” siano soprattutto rivolte alle persone con limitazioni di natura intellettiva o di salute mentale».
Chiare le conclusioni della Conferenza: “liberare” il prima possibile le persone con disabilità che vivono in situazioni inumane e degradanti; individuare con certezza le strutture da ritenere segreganti e quindi da chiudere o convertire; delineare nuovi modelli inclusivi di servizi e sostegni per l’abitare. Soprattutto in relazione all’ultimo punto, la Fish sottolinea che tuttora «i criteri di accreditamento delle strutture sono prettamente incentrati sui requisiti strutturali, che non riescono a distinguere i servizi che lavorano per l’inclusione da quelli che si possono definire come segreganti». Secondo la Federazione invece i criteri di accreditamento dovrebbero riguardare «processi “interni” alle strutture, focalizzati sulla personalizzazione dei progetti di vita, sui supporti, sull’interazione con il territorio e le comunità locali. Ed è ora di modificare anche le impostazioni “finanziarie”, centrandole non sulla copertura delle rette e quindi sull’autoconservazione dei servizi, ma sulle risorse necessarie alla realizzazione del progetto di vita della persona con disabilità, favorendone la deistituzionalizzazione e la crescita dell’autonomia personale».
Ai lavori era presente anche il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che ha assicurato il proprio supporto e annunciato un lavoro di studio e concreta verifica sul tema.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.