Welfare

Per ripensare i servizi per anziani occorre una cultura della ricostruzione

Non sarà sufficiente una riflessione sugli errori compiuti durante la stagione dell’allarme pandemia nelle Rsa. Servirà (servirebbe?), un confronto pubblico molto più profondo sul modello che è entrato in crisi, un modello di gestione della popolazione anziana non autosufficiente, già enormemente in difficoltà in tutti questi anni. Proviamoci

di Pierfrancesco Majorino

La situazione che si è determinata nelle Case di riposo, soprattutto in quelle lombarde, è drammatica.

Un’emergenza nell’emergenza colpevolmente sottovalutata nelle prime settimane dell’espandersi della malattia e poi perfino “agevolata” da scelte errate, come quelle compiute da Fontana e soci attraverso una catena di errori di cui la delibera, tanto citata, che si proponeva l’invio di positivi nelle RSA, è solo un frammento.

Da giorni e giorni ci arriva il racconto di storie tragiche, di testimonianze capaci di lasciare con la bocca aperta. Uno straordinario patrimonio di biografie spazzato via, senza nemmeno la concessione del diritto al cordoglio, dal COVID19. Di tutto ciò si discute e si discuterà.

E di questo si sta occupando anche la magistratura (il cui operato, sempre da rispettare, va osservato senza partigianerie di sorta). Quel che è certo è che non sarà sufficiente una riflessione sugli errori compiuti durante la stagione dell’allarme, errori che pure ovviamente vanno e andranno evidenziati affinché non si ripetano, innanzitutto sul breve periodo.

Servirà (servirebbe?), quindi, un confronto pubblico molto più profondo sul modello che è entrato in crisi, un modello di gestione della popolazione anziana non autosufficiente, già enormemente in difficoltà in tutti questi anni, come le inchieste di Vita recentemente pubblica stanno a dimostrare.

In altre parole avremo bisogno di dirci che l’irruzione della pandemia nelle nostre strutture dove vengono accolti i “vecchi” non ha fatto altro che ampliare le crepe di un welfare che non ha scommesso a sufficienza, se non attraverso piccole e parziali sperimentazioni a cui abbiamo dato vita con fatica in diversi territori, su qualcosa di diverso dai grandi istituiti dove ospitare le persone tra gli ottantacinque, i novanta, o addirittura i cento anni.

E se c’è un’eredità che ci viene utile nel tempo in cui riflettere di ricostruzione e della sua qualità, essa risiede – per quel che riguarda il tema di cosa offrire e proporre a una popolazione che invecchia – proprio nel bisogno di puntare molto ma molto di più sulla qualità dell’offerta nel territorio e sulla cultura di comunità.

E più in termini generali sull’articolazione di una filiera di servizi che punti molto di più sull’assistenza domiciliare (il vero e drammatico soggetto assente nel dibattito pure di questi giorni e ancora organizzata, ad esempio in Lombardia, attraverso la scissione tra l’ambito sanitario e quello sociale), sulla promozione di piccoli luoghi condivisi dell’abitare, sulla gestione di comunità-alloggio dove si sperimenti una vita ancora indipendente per gruppi di anziani altrimenti soli e poi sulla formazione di personale sociosanitario che deve essere riconosciuto molto di più per quello che inevitabilmente diventa: non un esercito disordinato di operatori malpagati per custodire o “seguire” gli anziani negli ultimi anni di vita ma soggetti essenziali sul piano delle prestazioni da garantire e sui legami da instaurare.

Questa opera di riqualificazione di una politica sulla terza età non la si realizza nelle aule dei tribunali. Ma attraverso un grande salto in avanti a livello locale, nazionale ed europeo, per mettere intorno a un tavolo i diversi soggetti (amministratori, medici, operatori, imprese, terzo settore, e, anche, rappresentanti dei cittadini ospiti nelle strutture residenziali) e provare a immaginare, coralmente, il futuro.

Perché avremo, indiscutibilmente, sempre più bisogno di servizi per le persone della “terza e quarta età” ed anzi questo dovrà sempre di più accompagnarsi con le problematiche che già interessano milioni di italiani ed europei, come quelle legate alla gestione della salute mentale e al decadimento cognitivo.

Ovviamente è impensabile immaginare l’innovazione di questa offerta di servizi alla persona prescindendo dal coinvolgimento diretto di chi le RSA le anima, le gestisce o di chi in esse investe risorse significative, cercando magari di realizzare imprese sociali legate all’ambito della cura. E servirà razionalità, poiché basta poco, nell’ambito dell’opinione pubblica, per alimentare pericolosi cortocircuiti.

Pensiamo al Pio Albergo Trivulzio, per fare l’esempio più semplice: il mix tra gli errori regionali e alcune responsabilità individuali di direzione, sta rischiando di cancellare l’autorevolezza di una storia o i grandi sforzi compiuti dal medesimo Ente, attraverso il suo Consiglio di indirizzo, in questi ultimi anni, sul piano del risanamento e della qualità delle prestazioni erogate nella fase “ordinaria”.

E, soprattutto, lo dico io che arrivo perfino a chiedere il commissariamento della Regione Lombardia in campo sanitario per affrontare i mesi che abbiamo davanti a noi, non è la logica dell’emergenza quella che favorisce il ripensamento delle politiche. Semmai è la cultura della ricostruzione.

Che poi, a ben guardare, è ciò che spesso ha alimentato le migliori trasformazioni del welfare.

E che richiede circolazione di idee, protagonismo dei soggetti e investimenti pubblici nazionali sul “sociale” ben più significativi di quelli visti in questi anni.

*Parlamentare europeo

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