Mondo
Migranti, cosa si muove dentro i palazzi dell’Unione europea
La discussione sull'operato dell'Agenzia Frontex e delle ong nel Mar Mediterraneo, le multe per gli Stati che non accolgono, la necessaria riforma di Dublino, il perché la "buona accoglienza" funziona: ecco le risposte dalle voci degli stessi protagonisti, incontrati al Parlamento europeo
L’Europa è una Fortezza che non vuole accogliere? Perché continuiamo a vedere morire esseri umani nel Mare Mediterraneo e le cose non cambiano? Tanti anni a seguire come giornalisti le migrazioni verso il nostro continente – fenomeno in altalenante crescita ma inscrivibile nell’ultimo trentennio – e un desiderio: andare nelle stanze del potere di Bruxelles e rivolgere le giuste domande alle giuste persone. Desiderio esauditosi, per Vita.it, lo scorso 6 giugno 2017, al momento di superare il doppio check point per la sicurezza all’entrata del palazzo Altiero Spinelli, il cuore da cui poi si snodano gli imponenti e luminosi edifici del Parlamento europeo.
Multe per chi non accoglie
L’occasione, dando a Cesare quel che è suo, è il seminario A Fair Share in Europe – Creating a Common Asylum System, organizzato dallo stesso Parlamento Ue, aperto a 150 giornalisti selezionati dai 28 Paesi dell’Unione. Un’intensa tre giorni, dal 6 all’8 giugno, con incontri in plenaria ma, soprattutto, momenti a porte chiuse con i principali attori europei in termini di flussi migratori, calendarizzati in modo efficace dalla Rappresentanza italiana al Parlamento europeo. Niente sconti, però: eravamo lì per chiedere conto dei fallimenti di gestione dei flussi migratori, e così è stato. Fin dall’incontro con il Commissario Ue per l’immigrazione, Dimitris Avramopoluos, nel quale, pur dandoci la notizia di nuovi fondi per l’Italia (la notizia a questo link), lui stesso ha aperto le braccia al momento della domanda tabù: e i 160mila ricollocamenti preventivati dagli Stati dell’Unione? A fine maggio il numero non superava le 20mila unità tra Italia e Grecia. “Paghiamo gli egoismi di molti stati membri. I valori fondanti dell’Europa unita stanno venendo meno proprio sul tema delle migrazioni”, è stata la sua amara constatazione, guardandoci dritto negli occhi pur aggiungendo “non ci daremo mai per vinti, anche a costo di procedure d’infrazione (leggi: multe, ndr)”.
Tali egoismi, forse il termine più ripetuto nelle tre giorni europei, hanno la loro quintessenza in due altri temi al centro delle discussioni – a volte caldissime – nelle aule degli intergruppi e delle commissioni parlamentari di Bruxelles: il controllo delle frontiere esterne all’Europa, ovvero quello che come operatori dell’informazione traduciamo nel ben più eloquente “il dramma dei morti nel mar Mediterraneo e del traffico di esseri umani” e il più burocratico ma altrettanto urgente problema della riforma del Trattato di Dublino che regola l’arrivo e la richiesta d’asilo nella Ue dei sopravvissuti al viaggio in mare.
Mare monstrum
Quasi 5100 persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo nel 2016 sono un record negativo che fa gridare molti al genocidio. Chi è il colpevole? I trafficanti, l’inedia istituzionale? Dopo l’operazione Mare nostrum, criticata per gli alti costi e per fare da pull factor, fattore di attrazione ma di fatto la migliore azione di sempre a salvaguardia dei diritti dei migranti in quell’area, le redini sono passate all’Agenzia Ue per il controllo delle frontiere, Frontex. Attorno a un lungo tavolo ovale di una delle centinaia di stanze della Commissione europea, mercoledì 7 giugno ci siamo trovati a tu per tu con Ewa Moncure, portavoce di Frontex: “la presenza delle navi Ue sembra diminuita negli ultimi tempi, se non ci fossero le imbarcazioni delle ong il computo delle vittime sarebbe molto più alto. Come se non bastasse, ora le stesse ong sono finite nel mirino di procuratori e politici, che hanno sbandierato proprio vostri rapporti. Dove sta la verità?”, le è stato chiesto. “Ci siamo sempre come prima, in quel tratto di mare, spesso in acque internazionali per operazioni Sar (Search & rescue, ricerca e soccorso): seppure il nostro mandato sia il controllo delle frontiere, salviamo vite umane e lo rivendichiamo. Di certo ci occupiamo anche di altre cose, come il contrabbando di droga, la pesca illegale e via dicendo, e questo ci occupa tempo e risorse”, è la prima parte della risposta.
Molto meno soddisfacente della seconda: “per quanto riguarda il ruolo delle ong, quello che noi chiediamo loro è maggiore collaborazione in ambito di gestione delle informazioni, per la sicurezza internazionale. Non abbiamo mai detto che sono colluse con i trafficanti, tant’è che abbiamo chiesto al Financial Times, autore di un articolo che lasciava intendere tale falsità basandola su dati estrapolati da un nostro rapporto che doveva rimanere interno, di rettificarlo e così ha fatto”. Ma il danno, in Italia soprattutto, è già stato fatto, con l’intero mondo delle ong messo sotto accusa, la campagna del 5 per mille 2017 gravemente danneggiata, e a oggi nessun capo d’accusa da parte del Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, la persona che ha sdoganato il tema anche nei salotti televisivi, dove alcuni politici – su tutti il vicepresidente della Camera e leader del movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio – hanno preso la palla al balzo parlando impropriamente di “taxi del mare”. All’incontro diretto con i parlamentari europei Kyenge (S&D), Ferrara (M5S), Spinelli (GUE) e Pogliese (PPE) il tema è stato affrontato, in particolare con Laura Ferrara, collega di partito di Di Maio, da sempre molto attiva sul tema migratorio e parte della commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) che ha chiesto “maggiore trasparenza sui finanziamenti di queste imbarcazioni”.
“Senza capi d’accusa specifici il risultato è quello di una inaccettabile campagna diffamatoria contro le ong che oggi operano in mare, con tanto di foto delle persone coinvolte messe sui social network, fatto grave e molto pericoloso per le possibili ripercussioni personali. Noi siamo in contatto quotidiano con queste ong da sempre, e continuiamo a farlo, coordinandoci con la Guardia costiera che è l’ente che decide in quale porto fare approdare ogni nave”, specifica la portavoce di Frontex. Potrebbero essere tratte in salvo in altri porti al di fuori dell’Italia, queste persone? Dato per assodato che portarli in Tunisia non è logico in quanto paese considerato “non sicuro” e a Malta nemmeno perché l’isola ha una presenza elevata di migranti forzati, ovvero circa quattro volte l’Italia rapportando le due popolazioni forzati, perché non portarli a Marsiglia, o Barcellona? “Secondo gli accordi che abbiamo, ovvero l’operazione Triton, noi siamo obbligati a riportarli in Italia”.
Dublino o non Dublino
Una volta in Italia – allo stesso modo di chi arriva in Grecia dalla Turchia – scatta il Regolamento di Dublino: il primo porto di approdo è quello dove è obbligatorio fare richiesta d’asilo per uscire dalla condizione di irregolarità e entrare nell’accoglienza. “Molte persone hanno parenti, conoscenti o semplicemente migliori prospettive di vita in altri Paesi, non è giusto che rimangano bloccate in un altro Paese: dopo la prima identificazione, queste persone vanno inviate subito in altri Paesi europei superando così il concetto del primo Stato d'approdo, alleggerendo il peso dei paesi del Sud e promuovendo in primo luogo una rapida riunificazione famigliare”, spiega l’europarlamentare Elly Schlein, anche lei incontrata a porte chiuse e reduce da una settimana di visite in hotspot e altri campi di prima accoglienza in Grecia, “dove ho visto situazioni insostenibili per i profughi”. La proposta di riforma di Dublino da parte del Parlamento europeo (la quarta dall’entrata in vigore, nel 1997) è quasi pronta: “tra l’estate e l’autunno”, conferma la relatrice della proposta, la parlamentare svedese Cecilia Wikstrom, “gli Stati membri dovranno assumersi le loro responsabilità, se rifiuteranno le loro quote di accolti”, con la prospettiva di una sanzione, come detto. “Almeno 250mila euro a richiedente asilo non accettato”, è l’idea che circola nei palazzi europei. La convergenza su Dublino attraversa ogni gruppo politico della Ue, arrivando persino al placet di Alessandra Mussolini (Ppe): “chi fugge dalle guerre va tutelato”, ha affermato, “chi invece viene per altri motivi legati al lavoro, non può trovare posto in Europa”. Persone che non rischiano nell’immediato la vita in patria, che però continueranno a lasciare in massa le proprie case nei prossimi decenni, come ha ribadito anche l’Onu nel suo summit sui rifugiati ambientali. “Servono quote nazionali di forza lavoro, in modo equilibrato, con un monitoraggio efficace di chi accoglie”, ragiona diversamente dalla sua collega di partito Salvo Pogliese. Anche Avramopoulos, del resto, aveva sposato la tesi pragmatica: “queste persone arriveranno comunque se non cambiano le diseguaglianze. Da una parte dobbiamo investire in loco, dall’altra strutturare al meglio l’accoglienza”.
La buona accoglienza parte dalla buona informazione
Nella tre giorni di incontri sono stati invitati anche i protagonisti della società civile in quanto a “buona accoglienza”: da Damiene Carene, sindaco di Grande-Synthe, la città vicino a Calais su cui insisteva il grande campo di migranti in attesa di tentare di superare la Manica verso il Regno Unito bruciato qualche mese fa, a Stavros Mirogiannis, responsabile di uno dei campi d’accoglienza di frontiera più efficienti, quello di Kara Tepe, sull’isola di Lesbo, per persone e nuclei vulnerabili. Ancora, il direttore generale dell’ong Medecins du monde Pierre Verbeeren e responsabili di associazioni umanitarie ungheresi, lettoni e tedesche. “Contro i populismi bisogna spiegare fin dall’inizio alle persone, ai propri cittadini, chi sono le persone che arrivano, cosa hanno bisogno e come chiunque può essere utile a dare una mano”, ha indicato Carene quando gli è stato chiesto come fosse stato possibile che la sua città fosse l’unica della Francia del Nord dove il Fronte Nationale, il partito nazionalista di Marine Le Pen, non è arrivato nemmeno al secondo turno. È stato proprio il magro e schietto sindaco francese, a conti fatti, la persona che ha riscosso più interessa da parte dei giornalisti. “Trovare un antidoto alla disinformazione, al razzismo, alle porte chiuse: è la priorità di oggi. Anche perché la conoscenza diretta aiuta a prevenire l’altro grave fenomeno di questi ultimi anni, il terrorismo”.
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