Politica

Democrazia e Covid19: è legittimo svuotare partecipazione e sussidiarietà?

Il welfare emergenziale al tempo del Covid19, ci offre lo spaccato di un grande apporto del terzo settore italiano alla gestione dell’emergenza, ma totalmente fuori da una cornice definita di collaborazione nazionale, relegandolo ad essere la toppa del sistema pubblico. Insieme all'esautoramento delle prerogative dei Consigli Comunali e alle deroghe di stampo emergenziale che vedono i Sindaci “iper responsabilizzati”... appare fondato il dubbio di esserci imbarcati in una sorta di deriva o perlomeno tentativo di fuga dalla democrazia, non solo per quanto di strettamente necessario alla emergenza in atto

di Gianluca Budano

Qualche giorno fa ho parlato di “7.904 disuguaglianze”: sono quelle generate dall’ordinanza 658 della Protezione Civile Nazionale e da numerose Regioni nell’affrontare l’emergenza sociale generata dall’emergenza epidemiologica in atto. 7.904 disuguaglianze, tante quanti sono i Comuni Italiani, perché se è vero che il riparto delle risorse statali (400 milioni) ha rispettato criteri di assoluta ponderatezza e proporzionalità (criterio demografico e del divario sociale) nella distribuzione ai Comuni da parte dello Stato centrale, ha lasciato la libertà/arbitrio alle 7.904 Amministrazioni Comunali di definire i criteri di accesso a tali benefici (prevalentemente buoni spesa) da parte dei cittadini ha rappresentato una delle più palesi iniquità nella lotta alla povertà degli ultimi decenni.

Il messaggio non vuol essere ingeneroso o di sfiducia nei confronti dei Comuni, interfaccia e presidio meritorio di prossimità sul territorio su tutti i problemi più gravi ed urgenti, anzi va a difesa degli stessi, che nel principio di sussidiarietà verticale trovano la garanzia più piena e responsabile delle loro stesse prerogative. Pare invece, che proprio questo principio viva tentazioni centrifughe in questa fase storica, al pari del principio di sussidiarietà orizzontale.

Il primo, quello verticale, ci è stato insegnato nelle lezioni di educazione civica e nelle aule di diritto pubblico o costituzionale, essere centrato su un modello di ripartizione delle competenze tra centro e periferia fondato sull’attribuzione della competenza al livello più adeguato a riuscire a perseguire l’interesse pubblico, sulla nota definizione e assunto per cui “se un ente inferiore è capace di svolgere bene un compito, l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenerne l’azione”. Ci si domanda retoricamente, nella vicenda dei buoni spesa e nelle politiche emergenziali in materia di welfare al tempo del Covid19, se lasciare a 7.904 Amministrazioni diverse con conseguenti 7.904 criteri di accesso ai benefici diversi, sia stato il modo migliore per far svolgere tale compito allo Stato (e ai Comuni), che deve garantire il principio di uguaglianza formale e sostanziale a tutti i cittadini e il principio di adeguatezza e differenziazione dello svolgimento dell’azione pubblica (art. 118 Costituzione Italiana, primo comma). Uno Stato, tra l’altro un po’ schizofrenico perlomeno, se confrontiamo la sua azione per materie analoghe con il pagamento del Reddito Cittadinanza accentrato presso l’Inps (scelta meritoria che differenzia chi istruisce la pratica – Comuni e Ambiti Territoriali – da chi programma le politiche e paga – le Amministrazioni Centrali dello Stato -) e l’erogazione dei sussidi agli autonomi, altrettanto centralizzata.

Il secondo, quello orizzontale, si svolge nell’ambito del rapporto tra autorità e libertà e si basa sul presupposto secondo cui alla cura dei bisogni collettivi e alle attività di interesse generale provvedono i cittadini, sia come singoli, sia associati, mentre i pubblici poteri intervengono appunto in via sussidiaria, di programmazione, di coordinamento ed eventualmente di gestione. Il welfare emergenziale al tempo del Covid 19, ci offre lo spaccato di un grande apporto del terzo settore italiano alla gestione dell’emergenza, ma totalmente fuori da una cornice definita di collaborazione nazionale, degradando questo fondamentale capitale di solidarietà sociale, relegandolo ad essere la toppa del sistema pubblico e non il soggetto che viene favorito nella “autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale…” (art. 118 u.c. Costituzione) che significa cooprogettazione dei servizi ma innazitutto comune definizione dei bisogni e costruzione concertata delle politiche.

Se a questo si somma il generale esautoramento delle prerogative dei Consigli Comunali, prevalentemente paralizzati nella loro azione, o dalle deroghe di stampo emergenziale che vedono i Sindaci “iper responsabilizzati”, o dal rischio contagio che non consente la normale vita democratica o dai deficit tecnologici che non consentono per scelta o per “pigrizia digitale” le riunioni in videoconferenza, il dubbio di esserci imbarcati in una sorta di deriva o perlomeno tentativo di fuga dalla democrazia, non solo per quanto di strettamente necessario alla emergenza in atto, appare fondato.

Principio di sussidiarietà verticale, principio di sussidiarietà orizzontale, pieno assolvimento delle prerogative delle assemblee rappresentative degli enti locali sono espressione plastica della democrazia del nostro Paese e ogni compressione deve essere considerata eccezionale e in quanto tale motivata ampiamente, come le deroghe al codice degli appalti e dei contratti pubblici, che meriterebbe un ulteriore e combinato approfondimento a quanto sopra rappresentato. Questo non è insomma il luogo della critica allo Stato e principalmente ai nostri Comuni per come stanno affrontando l’emergenza (quel tempo verrà ad emergenza cessata), ma il tentativo di dare voce, di rappresentare i rischi che le vie di fuga offrono, specie in tempi emergenziali, con terapie che a volte rischiano di diventare peggiori delle malattie da curare, per il modo di somministrarle e non certo per la bontà del farmaco.

*Consigliere di Presidenza Nazionale ACLI e Welfare Manager Pubblico

Photo by Yuliya Kosolapova on Unsplash

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