Politica
Recalcati: «Il nostro è un tempo senza memoria, Pasolini lo aveva capito»
Attorno al nome di Pier Paolo Pasolini non mancano mai polemiche. L'ultima, quella legata alla scuola del PD. Perché non sappiamo andare oltre gli schemi?
di Marco Dotti
Non sono bastati 42 anni dalla sua morte, avvenuta tra l'1 e il 2 novembre 1975 a Ostia, perché un barlume di verità affiorasse. Inafferrabile in vita, inafferrabile in morte, Pier Paolo Pasolini ha consegnato ai posteri un'eredità lacerante e ingestibile. Grande proprio perché inafferrabile, questa è la sua ricchezza. Una ricchezza che, se ascoltiamo intellettuali come il lacaniano Jacques-Alain Miller, verrebbe oggi svilita dalla sua riduzione a «intellettuale organico». L'obiettivo della critica del curatore testamentario (ma un testamento è un'eredità?, verrebbe da chiedersi) di Jacques Lacan è la scuola di partito che il PD ha inagurato il 20 maggio scorso, dedicandola proprio a Pier Paolo Pasolini. Un'idea, questa della "scuola PasolinI", venuta a un altro lacaniano: Massimo Recalcati. Della polemica, ne abbiamo fatto cenno su Vita (qui). Oggi, lasciando perdere le dispute spesso pretestuose, cerchiamo di ragionare sul pensiero di Pasolini. Lo facciamo riproponendo un'intervista che realizzammo nel 2010 proprio con Massimo Recalcati, per il numero monografico che, l'anno seguente, il 2011, la rivista Communitas dedicò a Pasolini.
Potere e repressione, una coppia-chiave. Con l’integrazione del desiderio nella sfera degli affetti o dei divertimenti, per usare le parole di Herbert Marcuse, «è la repressione stessa ad essere repressa», e in tal modo «la società ha esteso non la libertà individuale, ma il proprio controllo sull’individuo». Tra le accelerazioni improvvise della modernità, sganciato oramai da ogni apertura all’altro, il movimento del desiderio sembra oramai girare a vuoto, producendo tutt’al più nuove forme di asservimento e una libertà immaginaria. Forse, anziché “liberare”, avremmo dovuto semplicemente evitare di “aggirare” il desiderio, misurandolo, soppesandolo, ponendolo come fine e obbligo?
L’uomo contemporaneo, l’uomo ipermodernofa sempre più fatica a desiderare. Questa fatica è la sensazione oggi più diffusa del disagio esistenziale. Diversamente da quanto pensano certi edonisti, il nostro non è affatto il tempo della liberazione del desiderio. Al contrario, è il tempo dell’eclissi del desiderio. Ma “eclissi del desiderio” significa anche una forma di dissociazione inedita – ecco lamutazione antropologica – tra soggetto e inconscio. Il soggetto, ricordiamolo, è per la psicoanalisi il luogo del desiderio. C’è sempre meno inconscio, c’è sempre meno desiderio, c’è sempre più fatica a desiderare e c’è sempre più appiattimento della soggettività al principio di prestazione. Questo principio di prestazione, però, non è più quello descritto e analizzato da Herbert Marcuse, per esempio, negli anni ’60-’70. Il principio di prestazione ipermoderno è un principio oramai sadiano, ed è qui che possiamo cogliere la grande lungimiranza dell’ultimo Pasolini.
Infatti questo Pasolini affonda le proprie griglie analitiche a una profondità per certi versi sconcertante, scomponendo l’immagine stessa del soggetto attraverso il prisma di Sade (e in parte di Adorno) …
Il principio sadiano riduce il soggetto, l’uomo, a pezzi di corpo, a frammenti di corpo, come si vede bene in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Pezzi di corpo, frammenti di corpo, cioè strumento del godimento. La legge fondamentale che governa la nostra società è tendenzialmente perversa, se con “perversione” non intendiamo quello che succede nella camera da letto o l’omosessualità eventuale dell’autore, Pier Paolo Pasolini nel caso di specie. Perversione, per lo psicoanalista, è un godimento che diventa obbligo. Quando il godimento diventa dovere, obbligo, imperativo superiore allora uccide il desiderio.
Pasolini parlava di neocapitalismo e negli stessi anni – precisamente in una conferenza tenuta all’Università Statale di Milano, il 12 maggio 1972 – Lacan affrontava il «discorso del capitalista». Per entrambi, al centro della scena vi erano ormai la nuova configurazione del sistema capitalistico, rispetto alle sue origini storiche e, soprattutto, le sue dinamiche di distruzione di ogni legame innestate (anche) dalla proliferazione di un desiderio senza più limiti… In una poesia de La religione del mio tempo, Pasolini scriveva: «Altre mode, altri idoli, / la massa, non il popolo, / la massa /decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video /si abbevera, orda pura che irrompe /con pura avidità informe /desiderio di partecipare alla festa. / E s’assesta è là dove il Nuovo Capitale vuole. / Muta il senso delle parole: /chi finora ha parlato, con / speranza, resta /indietro, invecchiato».
Il discorso del capitalista si regge sulla elevazione del godimento a dovere, secondo lo slogan “dover godere”. Il principio di prestazione, oggi, prevede invece il godimento come dovere, come obbligo, come obbligazione. Pasolini questo lo aveva previsto, quando descrive la società dei consumi. Certamente, nessuna novità in questo, perché in fondo la Scuola di Francoforte aveva già duramente analizzato la deriva dei consumi, però…. Però, Pasolini aggiunge un altro elemento, per nulla secondario: la questione del corpo.
Persino la felicità è asservita a una dinamica nichilista, a un potere nuovo. Pensiamo al Decameron (1971), suo primo “successo” di pubblico, laddove Pasolini sembra aver perso ogni ansia di futuro, mutandola in nostalgia. Il recupero del gioco – «non si tratta più di umorismo e di distacco dalla materia: si tratta proprio del gioco» osserverà in un’intervista con Dario Bellezza –, la decisione di concentrarsi su scene napoletane, diventano elementi chiave per capire un rovesciamento articolato, non precisamente un cambio unidirezionale, nella sua prospettiva. Raffreddatosi il magma sottoproletario, con la «sua carica interna di protesta e di furore», sulla scena ne resta il complemento: l’allegria, il vitalismo, la natura – senza collera. Presto, però, anche quell’allegria e quel vitalismo, quella misteriosa e intenua felicità, verranno sussunti nel discorso del capitalista. Già nei Racconti di Canterbury l’eros degrada…
La felicità che il discorso del capitalista offre è il frutto di un impasto tra sessualità e morte. Quando Pasolini e Lacan parlano di una dimensione infernale del neo-capitalismo intendevano precisamente questo: l’iperedonismo sconfina nella pulsione di morte, che sono due facce della stessa medaglia. Ecco un altro aspetto assente nella Scuola di Francoforte, ma presente in Lacan e Pasolini. Un’altra riflessione che manca nella Scuola di Francoforte, sebbene loro fossero – come Pasolini, del resto – degli attenti frequentatori del testo di Freud è quella della vita e del corpo. Al contrario, Pier Paolo Pasolini si interroga su che cosa accade nel corpo e nella vita nel momento in cui si verifica questa trasformazione del potere introdotta sulla scena dal neocapitalismo.
E al tempo stesso, oltre a essere oggetto di analisi, il corpo è strumento di lotta declinato al futuro. Scrive infatti Pasolini: «…Io vorrei soltanto vivere / pur essendo poeta /perché la vita si esprime anche solo con se stessa. /Vorrei esprimermi con gli esempi. 7 Gettare il mio corpo nella lotta». A che antagonismo fa riferimento questo corpo scagliato in avanti, gettato – come dice Pasolini, che mutua il verso dallo slogan della Black Panthers – «into the struggle»?
Nel neocapitalismo il problema non è più un antagonismo di classe tra il potere/Capitale e le masse sfruttate. Il problema è semmai quello di un’integrazione capillare delle masse nel sistema stesso del potere. Una plasmazione inedita, senza antagonismo, che annulla la dimensione sovversiva della massa integrandola in un conformismo tanto disperato, quanto assoluto.
Il 7 gennaio 1973, sul Corriere della Sera; Pasolini pubblicava un articolo fortemente polemico fin dal titolo, “Contro i capelli lunghi”, introducendo il concetto di segno monolitico… Un altro segno della capacità inglobante e seduttiva del potere?
Il capellone, affermava allora Pasolini, è colui che immagina di rompere uno schema o un cliché introducendo attraverso il corpo, una stimmata del corpo, qualcosa che fuoriesce dal corpo. Questa stimmata è nello specifico il capello lungo che viene però trasformato in un segno monolitico, ossia una divisa, da un sistema che è oramai plastico. Un sistema che sa neutralizzare l’elemento sovversivo nel momento in cui lo accoglie, e lo rende moda. Lo stesso avviene nell’anoressia: il corpo magro, filiforme, morte, che ha pretesa di entrare in antagonismo col discorso del capitalista – l’uomo non vive di solo pane, sembra affermare l’anoressica. Per un verso, questo è un discorso antagonista, per altro il sistema lo fa rientrare trasformandolo nel discorso del corpo alla moda, magro, filiforme appunto. L’industria della moda neutralizza questa protesta del corpo magro, facendo dello stesso una divisa, un segno monolitico.
Il corpo che paradossalmente si “esprime” attraverso la moda (conformandosi ai suoi codici) è un corpo inespressivo, proprio perché svelato, messo a nudo, saturato di improbabili desideri. In una piazza piena di giovani, scriveva Pasolini, presto «nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista». La moda tratta dunque il corpo, non l’abito, riducendolo al silenzio e al grado zero della sua espressività?
Certamente. Esiste un luogo comune della clinica secondo il quale il corpo anoressico sta al di qua della differenza sessuale. Luogo comune che ha un suo valore: uno dei problemi che riscontriamo nelle anoressiche è il tentativo di rifiutare la sessuazioni, quindi livellare il corpo nelle forme sessuali per trattenerlo al di qua. Una mia paziente mi ha però suggerito un’altra idea: guardi, mi ha detto, che io non sono una bambina, al di qua della differenza sessuale. Al contrario, mi ha detto, io sono un marziano, sono al di là, sono post. Non è semplicemente una regressione, ma è un oltrepassamento del corpo.
In un’altra intervista, rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo, Pasolini osservava che il potere neocapitalista «manipola i corpi in modo orribile e non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler: li manipola trasformando la coscienza, cioè nel modo peggiore; istituendo dei nuovi valori alienati e falsi, che sono i valori del consumo; avviene quello che Marx definisce: il genocidio delle culture viventi, reali, precedenti». Potremmo spingere il discorso un po’ più in là, verso un universo “post”, e considerarci contemporanei di una mutazione già avvenuta. Un universo anche post-sessuale dunque…
Concentriamoci sul significato di post-sessuale. Che cosa significa? Significa che l’oggetto che mi interessa non è più il partner umano, ma è l’oggetto inanimato, l’oggetto inumano, la mia immagine allo specchio, il cibo, gli oggetti tecnologici. Questo è il post-umano che l’anoressica ipermoderna mette in evidenza: non tanto e non solo una regressione al corpo che precede la sessuazioni, ma un oltrepassamento della sessuazione come luogo di scambio simbolico tra gli esseri umani. La sessualità viene trasfigurata in un corpo minerale. Tutte le forme del disagio – depressione, panico, bulimia, obesità, tossicomania in modo particolare – sono forme in cui il soggetto divorzia dal corpo sessuale. E dunque divorzia dalla sessualità – tema pasoliniano – come luogo di scambio e si opta per partner inumani, ossia le varie sostanza che il discorso del capitalista offre illimitatamente. Sostanze intese come partner: il cibo, l’immagine del proprio corpo, lo psicofarmaco… C’è una moltiplicazione nell’offerta di questi partner inumani che risolvono il problema complesso del legame, dissolvendolo.
Torniamo alla dissoluzione del discorso del capitalista che è – per quanto possa sembrare paradossale – un discorso dello s-legame…
Il discorso del capitalista, secondo Lacan, si fonda su alcuni principi. Il primo è la forclusione della castrazione: il discorso del capitalista offre l’illusione che non ci sia limite. È un discorso che riguarda anche la scienza e Pier Paolo Pasolini era molto avvertito su questo punto e sul miraggio di un progresso che non ha limiti e, di conseguenza, diventa una forma di barbarie. Non c’è senso del limite – forclusione della castrazione. Ma il discorso del capitalista segue anche un altro principio: mette da parte le “cose dell’amore”. Non si occupa dell’amore e l’amore è la forma principale di legame per una comunità. Al contrario, il discorso del capitalista sponsorizza un rapporto cinico con l’oggetto. Terzo punto è l’iperattività, ossia la velocità infernale – dice Lacan – con cui il discorso del capitalista si muove e offre la sua merce. Questo aspetto infernale è presentissimo in Pasolini e in quello che chiamava neocapitalismo. Anche il tema dell’amore è presentissimo in lui. Mentre più problematico è l’aspetto della forclusione della castrazione, laddove in Pasolini è percepibile un roussoianesimo di fondo, ossia l’idea che il progresso in quanto tale sia male , perché si allontana dall’origine e, quindi, da un presupposto stato di natura.
Il mito dell’origine è presente in parte Accattone (1961), ma in toto nel Decameron, girato una decina di anni dopo, nel 1971. Se in Accattone o in Mamma Roma (1962) era ancora percepibile – parole di Pasolini – un’aria di contestazione sociale con la conseguente «volontà di una presa di coscienza», il Decameron rappresenta invece la «nostalgia di un popolo ideale, con la sua miseria, la sua assenza di coscienza politica (è terribile dirlo, ma è vero), di un popolo che ho conosciuto quando ero bambino». Eppure, anche qui, anche nella ricerca di un’«ontologia della realtà, il cui simbolo nudo è il sesso», Pasolini non smette di cercare. Forse, dichiara, «questo popolo esiste ancora, nel ventre di Napoli». Se una forza rivoluzionaria permane, è, in tutta la Trilogia della vita, una «scandalosa forza del passato»…
Certamente. È una dimensione che Pasolini ricerca nel sottoproletariato friulano o romano, nei popoli del Terzo mondo, a Napoli (pensiamo a Gennariello) nel tentativo di scovare un’origine incorrotta rispetto al tempo storico che avrebbe fatalmente la caratteristica di corrompere questa innocenza dell’origine, che è un miraggio pasoliniano. Ricordiamo le parole che Pasolini mette in bocca al regista Orson Welles, nella Ricotta (1963): «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, /dove sono vissuti i fratelli».
Però, ad un certo punto, lo stesso Pasolini capisce – in maniera drastica, ma al tempo stesso fortemente contraddittoria, come suo solito– che non è più possibile un altrove, che non è più possibile tornare a casa, proprio perché l’ultima figura del capitale ha dissolto ogni alterità.
Nell’ultimo Pasolini c’è infatti anche il sogno della vitalità disperata che rimane senza la sponda di quel sogno, senza ciò che potremmo chiamare “fantasma”. Il fantasma pasoliniano coincideva, almeno fino a un certo punto, con in mito quasi roussoiano dell’innocenza dell’origine. Poi, nell’ultimo Pasolini c’è un salto.
Persino topologicamente, perché nello spazio politico tracciato da questo salto non ci sono più il “Palazzo” da una parte e la “piazza” dall’altra, ossia la corruzione e l’origine. Quando parliamo di “ultimo Pasolini” dovremmo però ricordarci che l’ultimo Pasolini è certamente quello di Petrolio (anche se si dovrebbe aprire un discorso a parte sulla condizione di “profeta postumo”), ma è pure quello, forse più ingenuo, di certo più schematico dell’articolo sulle lucciole, pubblicato sulle pagine del principale quotidiano della borghesia italiana, il Corriere della Sera….
La forza di Pasolini è proprio nel suo essere quello che noi lacaniani chiameremmo un soggetto diviso. Pasolini opera con la divisione. Tutte le sue prese di posizione sono “divise”: è un marxista, ma non è ateo; è un laico che, però, sull’aborto prende una posizione anomala; è un gramsciano, è per il materialismo storico però pensa che la vita sia irriducibile alla dimensione della storia; è uno scrittore che lavora sui generi, è contrario allo sperimentalismo però fa un lavoro sulla lingua che è di una raffinatezza straordinaria. Si rivolge al passato – «Io sono una forza del passato…» – e d’altra parte riconosce che quel passato è un mito che si sta decostruendo. La sua forza è in questa divisione.
Eppure, senza quel mito dell’origine, senza quel passato (riscritto, reinventato, riattivato nella sua carica in controtendenza rispetto alla linea che allora si credeva inesorabilmente retta del «progresso senza sviluppo») non sarebbe per lui possibile alcuna nostalgia di futuro… La sponda gli è servita per lanciarsi. Per gettare il suo «corpo nella lotta»…
Il nostro è un tempo senza memoria e questo è un aspetto colto a fondo dall’opera di Pasolini. Proprio perché il discorso di del capitalista sostiene il culto della nuova sensazione, la sensazione distrugge l’esperienza e, quindi, rende impossibile la memoria. In Pasolini, proprio per la consapevolezza della posta in gioco, c’è un’attenzione costante, un tentativo costante di lavorare su memoria e passato.
Tentativo anche questo in controtendenza, se consideriamo la nostra come l’epoca in in cui si consuma definitivamente l’esperienza di ogni possibile esperienza…
C’è una definizione di Giorgio Agamben, in Infanzia e storia, sulla quale inviterei a riflettere: la tossicomania è la distruzione dell’esperienza. La tossicomania è uno degli esempi più paradigmatici della sensazione che distrugge l’esperienza, dell’estasi che distrugge la dimensione della memoria.
Un’estasi destrutturante, quindi. La stessa del potere?
Da un lato, è chiaro che abbiamo il Pasolini leggibile nella chiave di Foucault: il potere che non ha bisogno di sudditi, ma di consumatori. Dall’altro, però, sia in Salò, sia, soprattutto, negli Scritti corsari, abbiamo il Pasolini che individua il colmo del potere è la distruzione della Legge. Questa chiave è di un’attualità straordinaria: il colmo del potere è l’anarchia.
Come Eliogabalo,l’imperatore è un «anarchiste couronné», un anarchico incoronato.
Il colmo del potere è l’anarchia. Il colmo del potere è la dissoluzione stessa della Legge, perché l’unica legge che il potere può contemplare è quella del godimento senza limiti. Questa idea che il potere sia strutturalmente anarchico e che l’unica legge del potere sia la distruzione di ogni forma di legge offre una radiografia psicoanalistica incredibilmente attuale, sul piano politico. Pensiamo, giusto per fare un esempio, al passaggio dalla cosiddetta prima, alla seconda Repubblica, ma pensiamolo attraverso le immagini di De Gasperi o di Berlinguer, laddove il sacrificio pulsionale era evidentissimo, ma altrettanto evidenti erano i riferimenti a una legge, a una comunità, a un interesse superiore della collettività, tutte forme tese a garantire e rendere possibile il patto. In Berlinguer, ad esempio, il sacrificio pulsionale giungeva fino a una certa forma di ascetismo, oggi è tutto rovesciato: non c’è più patto, perché il potere rivela il suo volto anarchico. La legge non si costituisce più sul contenimento, ma sull’espansione del godimento: le leggi ad personam ne sono un esempio e, al di là delle contingenze, hanno questa dimensione epocale. Pasolini aveva colto perfettamente questo volto anarchico del potere e della legge.
È un fenomeno solo italiano?
No, con qualche eccezione (Obama, a mio avviso) è una tendenza. Perché è una tendenza presente nella società. Pensiamo alle famiglie e alla difficoltà di far passare un discorso sul limite, questa difficoltà investe il discorso educativo come tale, ed è sempre più difficile contrastare l’imperativo “Godi!”, “Divertiti!”. C’è una logica parallela e chi incarna o cavalca questa logica, che attraversa più livelli della nostra società, ottiene consenso. Ma questo non perché, che ne so, Berlusconi “manipola” i mezzi di informazione, quindi ottiene consenso. No, non è così. Berlusconi realizza consenso, perché realizza una certa rappresentazione del godimento. Una rappresentazione cinica del godimento che, per dirla pasolinianamente, coincide con l’anarchia intrinseca al potere.
Questa intervista è tratta dal fascicolo monografico "Omaggio a Pasolini" del mensile Communitas, n. 49/2011
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