Cultura

La storia del Leone del London Bridge

Roy Larner ha affrontato i terroristi a Londra da solo e a mani nude. Lo ha fatto perché “I’m Millwall” (sono del Millwall). Ma cosa significa veramente questa frase?

di Lorenzo Maria Alvaro

Ci sono raccolte fondi per le vittime degli attentati di Manchester, raccolte fondi per aiutare le ong a fare la differenza nei paesi in via di sviluppo, raccolte fondi per sostenere le associazioni che fanno accoglienza. La solidarietà in questi tempi di terrorismo ha molte facce e molte strade. Per questo la raccolta fondi personalizzata per aiutare un certo Roy Larner sta facendo notizia. Non tanto perché sia un raro caso di fundraising con una singola persona fisica come beneficiario, quanto sul perché si sia deciso di attivarla.

L’uomo è un 47enne londinese, residente nell’East End, area delle Docklands, ma oggi è più noto come “The Lion of London Bridge”. Il perché è presto detto: sabato sera era in un ristorante a fianco al ponte quando, senza preavviso, è iniziato l’attacco terroristico. Tre jihadisti armati di coltello – che alla fine della serata si scoprirà avranno ucciso tre persone – irrompono proprio al Black & Blue (il nome del ristorante) minacciando gli avventori. Roy Larner, come racconta lui stesso decide di fare qualcosa di fuori dagli schemi.

Si è alzato dal suo tavolo e mettendosi in mezzo al locale braccia larghe ha urlato: “Fuck off, I’m Millwall” (“Fanculo, sono del Millwall”), per poi avventarsi sui i tre. Ne ha rimediato 8 coltellate in tutto il corpo ma ha permesso a tutti gli altri presenti di scappare e salvarsi.

La raccolta fondi servirà a pagargli le spese sanitarie. La gente in più chiede che gli sia conferita la George Cross, l'onorificenza civile più alta per la Gran Bretagna.


La notizia sulla stampa inglese

Ma perché quest’uomo ha deciso di fare un gesto così folle e soprattutto dicendo di essere del Millwall?

È proprio su questo che bisogna fare un passo indietro. Per gli appassionati di calcio e tifoserie quel “I’m Millwall” è un biglietto da visita che non può lasciare dubbi. Roy Larner, i terroristi non lo potevano sapere, non stava dichiarando una residenza, ma l’appartenenza ad una delle tifoserie più leggendarie della storia. Roy Larner è un hooligans. E non uno qualsiasi.

The Isle of Dogs, l’Isola dei Cani, da cui viene l’uomo, è infatti la patria di un fenomeno che forse non conosce uguali in Europa, il Millwall F.C. e la sua chiacchieratissima Firm (l’equivalente dei nostri gurppi ultras).



Millwall significa il profilo grezzo e squadrato del The Den, lo stadio, con la sua compagine così caratteristica che mai ha vinto un trofeo in più di cento anni di storia; ma simboleggia – più di tutto – una storia di quartiere. Un neighbor unico, determinante nello sviluppo del club e della sua temutissima tifoseria. Quella conosciuta ai più per le intemperanze, gli scontri sulle gradinate e le violenze da strada; quella di cui pochi, probabilmente, conoscono origini e ragioni storiche di un fenomeno impermeabile ai mutamenti.




Veduta interna del vecchio The Den. Oggi l'impianto è stato rimodernato

Il Millwall detiene questa unicità: dal 1885 non ha mai vinto un trofeo, è una squadra di seconda o terza divisione ma è conosciuta praticamente in tutta Europa. Suona come un paradosso. Non fosse per la sua tifoseria, la sua firm, che accende cronache e animi in egual misura portando il nome dei Leoni costantemente alla ribalta.

Sono, senza ombra di dubbio, la tifoseria organizzata più estrema del Regno Unito. Il perché necessita di un’analisi storico-sociologica e di un balzo indietro nel tempo. Ai tempi della rivoluzione industriale, di Jack Lo Squartatore e di banchine portuali sovraffollate.

Nel caos a tinte fosche della Londra vittoriana c’è una zona che, più di altre, è l’emblema della rivoluzione industriale in atto: i cosiddetti docks. Una vasta area a sud-est della città che raccoglie ogni forma di commercio e attività portuale, fungendo da punto di raccolta, raffinazione e scambio per le merci in arrivo e in partenza dall’allora più grande porto del mondo. È una penisola di terra che, con l’andare del tempo e con l’esponenziale crescita degli scambi, diventa sostanzialmente un’isola dal nome singolare: l’Isola dei Cani.

Scordatevi la Londra in costume dei cappelli a tuba e delle folte basette, quella di Piccadilly o delle bianche villette a schiera di Tottenham. Qui l’atmosfera è viva ma infernale. E lo sarà per un centinaio di anni. Fumi e oli di lavorazione si mescolano con incidenti di ogni sorta, turni di lavoro massacranti e livelli igienico-sanitari degni di un paese medievale sono le condizioni base: le fondamenta di un quartiere ribattezzato Millwall.


I London Docks nel 1917

Costruito con celerità, sfruttando il boom commerciale della metà dell’800: il quadrato irregolare che delinea il distretto di Millwall è sostanzialmente una linea adagiata sulle banchine in continua espansione. Fin dalla sua fondazione ha come unico scopo lo sviluppo commerciale. Non c’è spazio per altro. Se non per un ammasso razionale di mattoni rossi messi in fila, ovvero: case popolari. All’ombra di un porto e di una grande ciminiera. Questa parte abitata dell’Isola dei Cani nasce e finisce qua. Essenziale, cupa. Funerea.

E soprattutto fuori da ogni altro tessuto economico, sociale e perfino linguistico. Perché da queste parti si parla con uno strano accento, una cadenza che arriva dal nord. I lavoratori e gli abitanti del quartiere sono per la maggior parte immigrati scozzesi.

Per capirne atmosfera e spirito si può usare una serie: Peaky Blinders. È ambientata a Birmingham ma rende bene l’idea.

La storia è lunga fino ai giorni nostri. Con alti e bassi. Dalla guerra alla crisi economica. Ma c’è una costante: la squadra di football, il Millwall F.C. Un team anomalo fin dai suoi esordi. Hanno un leone come simbolo e giocano in uno stadio irregolare, perfino architettonicamente sbagliato, ma da cui è impossibile uscire indenni data l’atmosfera presente. Sono, insomma, una squadra di reietti. Orgogliosi della propria condizione di workers ai confini del progresso, i tifosi del Millwall si configurano, fin dal periodo della Swingin’ London e di Woodstock, come ultimi testimoni di un avamposto di civiltà industriale snobbato da tutti.

L’isolamento fisico e sociale si sedimenta progressivamente; è un placebo contro le storture del mondo confinante: quello dei titoli a nove colonne sui tabloid, del glam sbandierato nella musica come nell’arte e dei cappelli sfavillanti della regina Elisabetta. Qui non c’è spazio per tutto ciò, né minimamente lo si vuole. È un eremo working class, che ha perso la speranza insieme ai suoi docks.

Si dovrebbe parlare della rivalità con gli Hammers del West Ham e di tanto altro.


Gli scontri con gli odiati rivali del West Ham del 1989

Oggi tutto questo non c’è quasi più. Ma se fino a sabato scorso, tra morti sulla coscienza, repressione, risse e titoli in prima pagina, giornali usati come mattoni e una miseria esistenziale pressoché inalterabile, Millwall continuava a vivere grazie all’apporto di una comunità discussa e più che discutibile, che rimaneva l’unico punto di identificazione sociale per i reietti e i dimenticati del mondo occidentale, oggi c’è The Lion of the London Bridge.

Oggi, per la prima volta, Millwall non è ammirata per paura, ma per rispetto. Tutto questo non c’è quasi più. Ma se fino a sabato scorso, tra morti sulla coscienza, repressione, risse e titoli in prima pagina, giornali usati come mattoni e una miseria esistenziale pressoché inalterabile, Millwall continuava a vivere grazie all’apporto di una comunità discussa e più che discutibile, che rimaneva l’unico punto di identificazione sociale per i reietti e i dimenticati del mondo occidentale, oggi c’è The Lion of the London Bridge.

Forse da sabato scorso il motto della tifoseria non è poi più così vero: “No One Likes Us, We Don’t Care”. Grazie a Roy Larner, più di uno ha cominciato ad apprezzarli.


Il coro “No One Likes Us, We Don’t Care. We are Millwall, super Millwall. We are Millwall from The Den!”

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