Volontariato
Diversi da prima, ma diversi come? Tre lezioni per la vita comune
Il tempo che stiamo vivendo, dice insieme cose opposte. Per questo gli esiti sono oggi imprevedibili. Ma se vogliamo che il domani sia diverso da ieri, almeno rispetto ai temi della “vita comune” ecco tre riflessioni su cui spingere l'acceleratore: cura, comunicazione e corpi
di Paolo Monti
La pandemia di questi mesi è un passaggio spiazzante che si inscrive dentro un cambiamento d'epoca già di per sé difficile da leggere. Chiunque si arrischi a prevederne gli esiti compie dunque con ogni probabilità un azzardo. Molto deve ancora depositarsi prima che si riescano a fare analisi lucide e profonde su questo cuneo che si è inaspettatamente conficcato nel nostro tempo personale e collettivo, divaricandolo.
Se non si possono fare grandi previsioni né distillare significati di fondo, si può però almeno cercare di adempiere a un compito in negativo. In primo luogo, cercare di spiegarci perché non è possibile dare una lettura univoca di questo passaggio. In secondo luogo provare a dire che cosa è emerso di diverso in questo tempo rispetto a "prima", per farne un apprendimento che indirizzi la nostra cura del domani.
Un tempo di opposte tensioni
Non è possibile dare una lettura univoca di questo passaggio perché esso ha molti tratti fra loro divergenti, che lo rendono per certi versi paradossale. Non c'è, insomma, "una lezione" che viene da questo tempo, perché in realtà esso dice insieme cose diverse e sollecita contemporaneamente consapevolezze e trasformazioni non univoche. Ecco alcuni esempi.
- Questo tempo ricorda l'importanza insostituibile del vivere in comunità, perché nelle articolazioni della comunità alcune membra vengono in servizio e in soccorso delle altre. Ma contemporaneamente il distanziamento reciproco e la paralisi di molte "membra" sociali sono necessari per il superamento della crisi.
- Questo tempo mette in evidenza quanto profondamente siamo corporei e interconnessi con la fragilità dei corpi d'altri: viviamo in corpi individuali legati dalla nascita alla morte in un "corpo sociale". Ma contemporaneamente si accelerano tutti i processi di smaterializzazione e virtualizzazione dei rapporti umani, affinché questi possano declinarsi altrimenti rispetto alla reciproca presenza "in carne e ossa".
- Questo tempo rimette in primo piano l'insostituibilità del sapere scientifico e delle competenze, a partire da cui si prendono decisioni "verticali", che si applicano a tutti. Ma contemporaneamente emerge quanto sia decisivo oggi posizionarsi dentro uno spazio comunicativo pervasivo e caotico, dove potenzialmente chiunque è emettitore e ricevitore.
- Questo tempo, infine, come ha osservato Marcel Gauchet[1], segna un grande risveglio del politico come categoria che designa quella ripresa responsabile e intenzionale delle condizioni di possibilità della vita collettiva, senza la quale ogni aspetto della convivenza sociale rischia di bloccarsi. Ma si riaffaccia anche la politica come biopolitica, come gestione e controllo delle vite individuali, come decisione imposta senza processo deliberativo nello stato d'eccezione.
Questo tempo segna un grande risveglio del politico come categoria che designa quella ripresa responsabile e intenzionale delle condizioni di possibilità della vita collettiva, senza la quale ogni aspetto della convivenza sociale rischia di bloccarsi. Ma si riaffaccia anche la politica come biopolitica, come gestione e controllo delle vite individuali, come decisione imposta senza processo deliberativo nello stato d'eccezione.
Cosa possiamo apprendere?
La lista potrebbe continuare. Che cosa possiamo dunque apprendere in questo spazio agitato da opposte tensioni? Si può forse tentare di circoscrivere alcune evidenze emergenti e farne tesoro, guardando alla vita sociale come “vita comune”, come spazio di comunicazione e relazione fra i corpi.
1.La vita comune
Affinché la vita sociale non si disgreghi deve potersi esprimere in una “vita comune”, ma la vita può essere messa quotidianamente “in comune” solo se si trova costantemente il modo di avere cura dei malati, degli anziani, dei bambini, dei poveri, in tutte le forme di questa cura, che vanno dalla medicina, all'accudimento, all'educazione, alla promozione sociale. Abitualmente si tende a considerare tali questioni come "già risolte" da alcuni sistemi istituzionalizzati come la sanità, la scuola, il welfare, il servizio sociale. Questioni che si ritengono talmente "già risolte" da poterle trascurare sistematicamente in favore d’altro, che promette di essere l'economia "vera", il "futuro", la "crescita". In realtà quegli ambiti di cura sono una parte centrale di tutto ciò che la vita sociale è, perché tutti noi siamo a qualche punto o in qualche modo malati, bambini, anziani, studenti, indigenti. Come ha osservato, con molti altri, la filosofa Eva Kittay, c’è una “cura dell’amore” che non è solo fatto privato, ma è il tessuto di dipendenze e dedizioni su cui si regge la vita di ogni individuo e la tenuta di ogni società[2]. Non c'è dunque modo per una comunità di essere tale se non a partire dalla considerazione di questi luoghi dell'esperienza umana come parte fondamentale della propria identità.
Affinché la vita sociale non si disgreghi deve potersi esprimere in una “vita comune”, che significa trovare costantemente il modo di avere cura dei malati, degli anziani, dei bambini, dei poveri… Questa consapevolezza non va dispersa, o si tornerà a dire che bisogna correre per ristabilire le priorità di prima. Perché il “dopo” sia diverso, occorre che chi è impegnato nell'educazione, nella cura e nell'assistenza non si limiti a chiedere maggiori risorse, magari come “retribuzione” per il servizio svolto in tempi di crisi. Occorre che questi ambiti tornino al centro della progettualità culturale, sociale e politica: il nucleo da cui ripensare il futuro. Paolo Monti
Questo oggi appare più chiaro che in altri momenti, ma nella prospettiva del "dopo" pandemia occorre fin da subito chiedersi come concretamente si vuole evitare che questa consapevolezza vada dispersa. Già durante la crisi finanziaria del 2008 si andò ripetendo con insistenza che “dopo” niente sarebbe più stato come prima, e invece troppo poco è poi cambiato dal punto di vista normativo e operativo. Lo stesso, bisogna saperlo, tenderà a succedere quando in qualche modo si uscirà dalla fase emergenziale della pandemia: si tornerà a dire che bisogna correre per recuperare il tempo perduto, cioè per ristabilire al più presto le priorità di prima. Perché il “dopo” stavolta sia diverso, occorre che chi è impegnato nell'educazione, nella cura e nell'assistenza non si limiti alla rituale, per quanto comprensibile, richiesta di maggiori risorse, magari come "retribuzione" per il servizio svolto in tempo di crisi. Occorre di più, e cioè che questi ambiti tornino al centro della progettualità culturale, sociale e politica, che siano ciò di cui si discute, dove si fa ricerca, quello di cui si avverte la priorità: il nucleo a partire dal quale si pensa al futuro. Quale che sia, sarà quello in cui dovremo vivere domani.
2.Lo spazio della comunicazione
Se quello che serve è un ripensamento e scelte nuove, bisogna fare i conti con lo spazio dove oggi si formano consapevolezze e orientamenti collettivi. Il principale mercato che agita i nostri tempi è quello dell'attenzione. Le reti sociali sono grandi ingegnerie dell'attenzione, ambienti costruiti per addestrarla, orientarla e metterla in vendita, come illustrava già alcuni anni fa un bel libro di Tim Wu sui nuovi “mercanti dell’attenzione”[3]. Questo tipo di meccanismo ha largamente penetrato un po' tutti gli ambiti della vita sociale, non ultimo quello politico. Nel flusso iconico ubiquo, resta solo l'immagine su cui si riesce a catalizzare l'attenzione dei più (per sintonia o per reazione, poco importa). Un grande impatto dell'esperienza collettiva della pandemia è stato quello di far girare la testa di tutti nella stessa direzione, di aver imposto un centro di attenzione non pianificabile a tavolino. In questo cambio di scena, confuso e un po' attonito, si è percepita di nuovo la differenza fra parola autorevole e chiacchiera, fra gesto significativo e agitazione scomposta. Nella piazza San Pietro vuota, le parole e i gesti di Papa Francesco, con tutta la sua corporeità di uomo anziano e claudicante, hanno avuto un'eloquenza universale. Il fraseggio fermo e di poche parole del Presidente della Repubblica è parso a molti il più significativo in una conversazione politica che spesso non ha soluzione di continuità, nei modi e nei contenuti, con i pomeriggi della tv generalista.
Un grande impatto dell'esperienza collettiva della pandemia è stato quello di far girare la testa di tutti nella stessa direzione, di aver imposto un centro di attenzione non pianificabile a tavolino. In questo cambio di scena, confuso e un po' attonito, si è percepita di nuovo la differenza fra parola autorevole e chiacchiera, fra gesto significativo e agitazione scomposta. Se si vuole che i contenuti della conversazione mutino, è necessario sapere che i modi, i linguaggi e le piattaforme della conversazione contribuiscono a orientarli e determinarli.
Questo spazio comunicativo – del rito liturgico, del gesto esemplare, della parola laconica ma alta – può e deve essere preservato. Esso è una condizione di possibilità perché si continuino a poter dire le cose più importanti entro un contesto ove il loro senso e il loro peso siano intendibili. La preservazione (o forse la ricostituzione…) di questo spazio riguarda tutti, compreso chi lavora abitualmente nell'ambito dell'educazione, del lavoro sociale e dell'impegno civile. Troppo spesso si sta acriticamente al gioco delle piattaforme della comunicazione sociale, con il comprensibile desiderio di raggiungere un pubblico. Troppo spesso ci si getta nei dibattiti più visibili, magari mossi dalla volontà di contrastarne le opinioni prevalenti. Il compito di chi attende alla vita d’altri per essere compreso richiede uno spazio che renda apprezzabile la dignità della singola persona, il suo destino, la serietà di ogni esistenza e del suo dolore. Questo difficilmente è comunicabile stando nello stesso discorso del mercante o del provocatore, per quanto con migliori intenzioni. Se si vuole che i contenuti della conversazione mutino, è necessario sapere che i modi, i linguaggi e le piattaforme della conversazione contribuiscono a orientarli e determinarli.
3. La relazione fra i corpi
Al cuore di una riconsiderazione della vita comune deve poi oggi stare necessariamente uno sguardo diverso sulla condizione umana condivisa entro uno spazio globale. Molto si è detto e scritto in queste settimane sulla riscoperta della vulnerabilità come tratto decisivo dell’umanità, e quindi anche come possibile fondamento di un'etica della cura e della reciproca responsabilità, non solo contro la logica del profitto o del consumo, ma anche oltre le concezioni della giustizia sociale astrattamente concentrate sul problema delle risorse economiche o su quello dei diritti civili. Non si tratta in realtà di un dibattito nuovo, ma di un'intuizione coltivata lungamente da tradizioni di pensiero personaliste, comunitariste e femministe e che ha ritrovato oggi meritata considerazione. Negli ultimi decenni i processi di globalizzazione si sono basati su una serie di assunti in evidente rotta di collisione con il rispetto della vulnerabilità della vita. L'assunto della illimitata dislocabilità dei corpi, per cui le vite di ciascuno devono essere flessibili, mobili, farsi trovare là dove le opportunità del mercato lo richiedono, adattarsi alle condizioni della competizione. L'assunto della illimitata interazionabilità dei corpi: uomini e donne, specie animali, merci di ogni tipo devono interagire ovunque con frequenza sempre maggiore, con sempre minori barriere di tempo e di spazio. Questi assunti, la cui accettazione incondizionata era considerata necessaria per il funzionamento efficiente dei mercati globali, appaiono ora alla radice di un sistema fragilissimo, che può incepparsi sull'intero pianeta proprio come effetto indesiderato della sua velocità e ubiquità.
Si rivela in questi avvenimenti la tendenza auto-distruttiva di quella "cultura dello scarto" di cui spesso parla Papa Francesco. Un sistema tecnico-economico che non fa i conti con i limiti e le diversità profonde dei suoi soggetti e dei loro contesti di vita, ma semplicemente li emargina quando non sono adatti al suo funzionamento efficiente, prima o poi crolla sotto il peso delle conseguenze di questa mancanza di responsabilità.
I nostri corpi umani e il “corpo” ambientale in cui viviamo sono vulnerabili ed esposti a questo tipo di regime, trasferiscono nel giro di poche settimane una ferita locale in un vulnus mondiale, lasciando poi a ciascuno il compito di trovare rimedio, proprio quando improvvisamente la fabbrica globale fatica a garantire merci e risorse, mettendo a dura prova sistemi politici diversissimi fra loro per cultura e possibilità. Si rivela in questi avvenimenti la tendenza auto-distruttiva di quella "cultura dello scarto" di cui spesso parla Papa Francesco. Un sistema tecnico-economico che non fa i conti con i limiti e le diversità profonde dei suoi soggetti e dei loro contesti di vita, ma semplicemente li emargina quando non sono adatti al suo funzionamento efficiente, prima o poi crolla sotto il peso delle conseguenze di questa mancanza di responsabilità. Della vulnerabilità o ci si fa carico sempre e radicalmente, oppure prima o poi essa tornerà a far sentire le proprie inevitabili implicazioni sulla vita di tutti, con buona pace dei fragilissimi meccanismi della produzione e del commercio mondiale.
[1] Marcel Gauchet, C’est un réveil du politique, in «Philosophie Magazine», 17 marzo 2020, disponibile online a: https://www.philomag.com/lactu/marcel-gauchet-cest-un-reveil-du-politique-42738 [ultima consultazione 16 aprile 2020]
[2] Eva Feder Kittay, La cura dell'amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, Vita e Pensiero, Milano 2010.
[3] Tim Wu, The Attention Merchants: The Epic Struggle to Get Inside Our Heads, Atlantic Books, London 2017.
*professore a contratto di Etica e Deontologia Professionale – Università Cattolica del Sacro Cuore
Foto Unsplash
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