Cultura
Tra cura e tanatocrazia, il dilemma dell’uomo pandemico
Si è riproposto la questione etica e antropologica di una necessaria discriminazione operata dalla Sanità. Una forma di tanatocrazia sociale in cui si sceglie chi poter salvare, mentre il virus tocca tutti, senza distinzione di ceto, origine, età, sottraendo due atti fondanti e costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e la ritualità del cordoglio
«Passo tante ore davanti a un paziente, poi a un altro, poi a un altro e torno a casa che magari tutti e tre sono morti e loro non hanno saputo neppure il mio nome ma hanno visto due pupille che li guardavano attentamente per intubarli o estubarli, in una tuta bianca, con una mascherina che brucia la faccia dopo tante ore. Soli, tremendamente soli, muoiono lucidi, come se annegassero e senza un affetto e qualcuno che possa dare loro un abbraccio o possa accompagnarli al cimitero», così racconta Noemi, una delle infermiere, molto giovani, in prima linea, nell’emergenza da COVID-19.
Possono seguire tante pagine di testimonianze in cui gli operatori e i pazienti, sopravvissuti, si raccontano quella che erroneamente è stata definita “guerra” ma che guerra non è: il nemico lo si conosce, non si uccide nessuno se non si resta uccisi, da un lato, dall’efferatezza del virus, dall’altro, dalla necessaria discriminazione operata dalla Sanità (si veda il controverso documento dell’Associazione di medici anestesisti e rianimatori- SIAARTI 2020) non più di «far vivere e lasciar morire» ma, come ha sostenuto recentemente Jean-Loup Amselle (2020), di «far vivere il capitale e lasciar morire i vecchi e gli improduttivi». Si ripropone quella questione etica e antropologica che il drammaturgo G. Bernard Shaw aveva presentato nel 1906 in Il dilemma del dottore, in cui il protagonista, Colenson Ridgeon (allusione al batteriologo e immunologo britannico Sir Almroth Edward Wrigh), inventando una nuova cura per la tisi, doveva scegliere chi sottoporre ad essa per la limitata disponibilità di dieci posti.
Da una forma di biopotere, di chiara eredità foucauldiana, si è passati a un’evidente tanatocrazia sociale in cui si sceglie chi poter salvare, mentre il virus tocca tutti, senza distinzione di ceto, origine, età, sottraendo due atti fondanti e costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e la ritualità del cordoglio. Persino le società nomadi praticavano rituali funebri stanziali e la civiltà greca e latina ha fatto della ritualità funebre uno dei fondamenti della sua etica valoriale: si ricordi il riscatto del corpo di Ettore nell’ultimo canto dell’Iliade, il dramma di Antigone, la tradizione degli epicedi, l’esposizione del cadavere sul lectus funebris e la pratiche delle prefiche nella Roma classica e imperiale; oggi più niente di questo, anzi. Dalle case di riposo giungono silenziose grida di solitudine e di disperazione: padri e nonni lasciati morire, senza virus, accanto a malati infetti lì trasferiti per volere degli enti regionali, assenza di dispositivi di protezione per gli operatori e gli ospiti, impossibilità per i parenti di vedere i propri cari perché incapaci di fare da soli una videochiamata e di utilizzare delle applicazioni digitali, oggi linfa vitale della socialità pandemica.
Non viene rispettata, come dice il bioeticista Sandro Spinsanti (2020), neppure uno dei tre criteri della “Carta della professionalità medica”, pubblicata nel 2002 da The Lancet e Annals of Internal Medicine: «fornire cure efficaci, secondo lo standard delle conoscenze mediche; rispettare il paziente come persona autonoma, tenendo in considerazione le sue scelte e le sue preferenze; garantire a tutti i cittadini uguali opportunità, con equità e senza discriminazioni». Ma non ai medici va la colpa della necessità della scelta, dell’assenza della relazione e della garanzia dell’autonomia della persona, diventando loro stessi vittima di un sistema che non sempre li protegge né garantisce per la loro incolumità mentre tentano di salvare vite e apparato.
Ancora una volta, quella violenza strutturale infima (Farmer 1999), cuore di uno Stato in cui le disuguaglianze sociali, politiche ed economiche dominano incondizionate sul valore stesso della persona, decreta chi possa morire e chi vivere. Inoltre, si muore di solitudine, si muore in solitudine per volere di decreti ministeriali, nell’impossibilità di dare al lutto un significato razionale, attraverso quelle cinque fasi ben descritte dalla psichiatra Elisabeth Kubler-Ross (1969) che dalla negazione passa alla rabbia, poi alla contrattazione, alla depressione e, infine, all’accettazione, che tarda e tarderà ad arrivare per l’assenza stessa del rituale. Ciò determina un nuovo disagio della civiltà che è prima mentale e poi fisico, tanto da riproporsi quella dicotomia cartesiana tra il corpo, meglio se puro perché lecito e accettato (Douglas 1975), che deve essere preservato e salvaguardato, e la mente, nel senso più olistico di psiche, che subisce ferite profonde, non ancora ben ponderate, dalla sospensione prolungata e dall’isolamento forzato. In termini di disequilibrio ecologico e psicologico vengono a determinarsi malesseri e sofferenze sociali che né mascherine né giuste distanze potranno facilmente risolvere! Psicologi e psicoterapeuti creano il loro setting via streaming, attraverso chiamate Skype o Zoom, e assistono un figlio alla ricezione di una chiamata in cui viene comunicata la morte del padre o della madre o, ancora più atroce, di un fratello giovane dopo i due genitori nell’arco di pochi giorni. Senso di colpa, smarrimento, sconforto, ira per l’ingiustizia subita, necessità di «ossigenare il lutto», come sostiene lo psicologo Nicola Ferrari (2020), attraverso delle strategie quotidiane in cui anche la salute mentale possa essere preservata oltre all’igiene del corpo, con o senza un lutto subìto. Aria e voglia di normalità che, quando c’è, stanca e annoia, quando manca, genera malattia e malessere.
Ciò che maggiormente inquieta non è solo la morte in sé (per se stessi e per i propri cari), il cambiamento repentino delle abitudini, la negazione della socialità, ma anche la confusione e l’incertezza che giunge dagli scienziati, che dovrebbero dare risposte e indicazioni chiare, un futuro incerto, nella vita quanto nell’economia, in un tempo che sembra non trascorrere mai, con ogni giorno uguale a se stesso. Incertezza che deriva da una triplice crisi: quella biologica, in cui la pandemia democratizza la morte e mette a nudo la fragilità dell’essenza ontologica dell’uomo, quella economica, che un periodo di così lunga sospensione e stasi inevitabilmente genera, e quella antropologica, che genera l’uomo “pandemico” che, da mobile, (iper)dinamico, animale sociale ed oeconomicus, diviene costretto alla staticità solitaria, in cui la fiducia nell’altro e per l’altro è fortemente messa in discussione, improduttivo e in continua attesa.
Come avevano già scritto Tucidide, Boccaccio, Manzoni, Camus e Saramago, la pandemia è uno stato d’eccezione che mette a nudo i pregi e i difetti di un’intera società, intesa qui come sistema politico e sanitario (con il suo limite e la sua fallacia), debolezze dalle quali l’uomo e la comunità tutta devono trovare, necessariamente e inesorabilmente, le risorse per reinventarsi e riabilitarsi a nuova vita. Infatti, mentre continuiamo a essere numeri su numeri (il conto dei morti, degli ammalati e degli infettati; le cifre di un PIL in forte crisi e quelle dei pochi guariti; le statistiche di un’auspicata ripresa e delle contaminazioni nel mondo), ci poniamo nell’ottica del superamento della crisi e della stasi, come dopo un trauma, non solo individuale, questo, ma fortemente collettivo, in cui appare necessario dispiegare quella intelligenza agonistica che Giuseppe Vercelli (2009) definisce come «l’insieme delle competenze insite nella naturale tendenza dell’essere umano a progettare, affrontare, superare e prevedere le sfide con se stesso, con gli altri, con l’ambiente».
Spetta adesso a ciascuno porsi, con le risorse mentali e fisiche che gli sono proprie, nella possibilità, in primo luogo, di comprendere l’ambiente, ovvero quella crisi ecologica che ne ha causato morti e perdite; in secondo luogo, di divenire più consapevole nella costruzione di un nuovo approccio agli altri, alla socialità, a una collettività forse più cosciente nel salvaguardare la libertà propria che è anche altrui, e quindi di sentirsi homo civilis, ovvero membro di una civitas, intesa tanto come città quanto come comunità umana. In terzo luogo, spetta a ognuno di noi acquisire la capacità di fare i conti con se stesso, con la propria finitudine e l’illusoria onnipotenza, scoprirsi creativo nei momenti di maggiore noia e monotonia, che l’isolamento ampiamente fornisce, apprezzare i valori dimenticati e le cose di piccolo conto che accompagnano, ora, una quotidianità domestica e familiare, saper vivere la solitudine come momento di cura del sé e per sé, permettendosi anche di piangere al pensiero dei cari lontani, di fronte all’inoperosità, alla leopardiana sospensione del piacere, all’incertezza del futuro ma scoprendosi ancora fortemente e umanamente vivi.
*Università di Torino – Dipartimento Psicologia e salute pubblica
Riferimenti bibliografici
Amselle J.L., (2020), «Bio-pouvoir» ou «thanatocratie» ?, online, https://www.nouvelobs.com/
Douglas M., (1966), Purity and Danger, London, Routledge and Keegan Paul.
Farmer P., (1999), Infections and Inequalities, Berkeley-Los Angeles-Oxford, University of California Press
Ferrari N., (2020), Il lutto soffocato dal Coronavirus. Cosa fare?, online, http://www.sipuodiremorte.it/
Foucault M., (1975), Surveiller et punir, Paris, Gallimard.
Kübler-Ross E., (1969), On Death and Dying, London, Routledge
SIAARTI, (2020), Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensive e per la loro sospesione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, versione 01 del 6/03/2020.
Spinsanti S., (2020), La cura: una questione di merito? Online, http://www.sipuodiremorte.it/
Vercelli G., (2017), L’intelligenza agonistica, Milano, Ponte alle Grazie
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