Cultura

«Come se ancora esistessero fratelli»: in mortem di Paul Celan

Il 20 aprile del 1970, a Parigi, moriva Paul Celan uno dei più grandi letterati del Novecento. Pubblichiamo una sua poesia, introdotta e tradotta da Dario Borso, che di Celan offre una lettura illuminante: la sua non fu solo una fuga disperata, ma anche ricerca inesausta dei più minuti fasci di speranza

di Dario Borso

Una linea invisibile e al contempo concreta attraversa il mondo. Come un meridiano congiunge il differente e il molteplice, il lontano e il disperso. È la parola, con la sua verità: la poesia. Paul Celan, tra i più grandi, è poeta che ha abitato quel meridiano, attraversando lingue – tedesco, romeno, francese – e culture. Nell'anniversario della sua morte, che ricorre oggi, Dario Borso, traduttore e curatore di alcune fra le sillogi più importanti del poeta scomparso a Parigi il 20 aprile del 1970 (Oscurato, Einaudi 2010; Poesie sparse pubblicate in vita, Nottetempo 2011; La sabbia delle urne, Einaudi 2016; A. Blok-P. Celan, I dodici, L'arcolaio 2018; Microliti, Mondadori 2020) , introducendo e traducendo per noi una poesia di Celan ci invita a rileggerlo. Proprio oggi, proprio ora: sul meridiano delle comuni paure e comuni speranze. (md).

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Giuseppe Bevilacqua, considerato giustamente “il” traduttore italiano di Paul Celan visto che nel 1998 pubblicò in un Meridiano Mondadori nove delle dieci sue raccolte, in sede critica poi (Letture celaniane, Le Lettere 2004) le pose tutte come orientate, se non pianificate, al suicidio.

Moshe Kahn invece, nell’introduzione all’antologia celaniana uscita nel 1976 sempre per Mondadori (primo testo di Celan tradotto in Italia, da un trentenne che quarant’anni dopo avrebbe vinto il Premio Celan per la traduzione in tedesco di Horcynus Orca del nostro Stefano D’Arrigo), a proposito del suicidio ebbe a scrivere: «si è subito interpretato questo come l’ultima conseguenza della sua opera. In verità la possibilità del suicidio non era mai stata esclusa. Ma non dipendeva dallo sviluppo letterario di Paul Celan, bensì dalla vita che si rifletteva in esso».

Penso che Kahn abbia ragione, a patto d’intendere per “sviluppo letterario” non una mera scorza formale avulsa dal contenuto, ma un itinerario poetico tutto e sempre teso a rintracciare nel mondo i più “minuscoli covoni di speranza”.

Come ad esempio in questa poesia del 1959:

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