Welfare

L’innovazione sociale smetta di essere la ciliegina sulla torta

"Diciamocelo: l’innovazione tecnologica e sociale è stata a volte (o spesso?) interpretata come routine organizzativa, impastata e cotta sempre allo stesso modo. Anzi, per evitare guai, si è preferito subappaltare l’innovazione a soggetti nati per rischiare come le startup tecnologiche". L'intervento del social innovation manager di Cgm

di Flaviano Zandonai

Covid-19 è il nostro vaso di Pandora. Che abbiamo incautamente aperto rovesciandoci addosso di tutto. Cose in gran parte note, ma tutte insieme e nello stesso momento generano ben altro impatto. Ad esempio ci ha fatto capire quanto siamo interconnessi ma allo stesso tempo disassati al nostro interno nel gestire queste relazioni con buona pace del “glocalismo”. Ci ha anche reso consapevoli di quanto siamo un sistema economico e sociale al limite delle proprie possibilità, con poco margine d’azione, ma che comunque si ostina a comportarsi come la ormai nota “società signorile di massa” battezzata dal sociologo Luca Ricolfi. E ancora quanto contiamo, a parole, sulla resilienza del nostro welfare ma dopo averne limitato grandemente, come ricorda l’urbanista Alessandro Coppola, la sua ridondanza in termini di offerta trovandoci così con un sistema al limite collasso non solo nelle strutture sanitarie in prima linea, ma anche nelle retrovie dei servizi sociali, educativi, culturali, ecc.

Ma non basta, perché un altro dei mali liberato dal virus riguarda l’innovazione tecnologica rispetto alla quale si evidenzia un notevole divario tra disponibilità e capacità d’uso. Tante risorse ma usate spesso male, cioè in modo parziale e primitivo. Una mezza débâcle considerando che si tratta del più importante shock avvenuto, almeno per il nostro paese, nell’era dell’innovazione e della tecnologia “social” e “open” dove cioè la modalità d’uso e per di più da parte di soggetti collettivi gioca un ruolo fondamentale. Una nuova, possibile era dopo quella novecentesca caratterizzata dalla separatezza della conoscenza chiusa nei laboratori e dal predominio dell’offerta che spinge su innovazioni “di rottura” guardando poco al possibile traino esercitato dalla domanda.

Insomma fin qui l’innovazione come fatto sociale non ci ha aiutato molto: né per adeguare i comportamenti individuali e collettivi al nuovo contesto, né per aiutare chi rende disponibili beni e servizi di una qualche utilità sociale a ridisegnare la propria offerta e i modelli di azione sottostanti. Per non parlare degli interventi regolativi e promozionali dei policy maker in sede di elaborazione, comunicazione e implementazione.

Come mai è successo? Cercare le risposte nel bel mezzo di una tempesta perfetta è oggettivamente complicato, ma è uno sforzo da fare perché mai come nei momenti di rottura le possibilità di apprendimento si amplificano, a patto però di avere i ricettori giusti per saperle cogliere e rielaborare in forma di soluzioni che da suture parziali diventano strutturali. Ecco già in questa affermazione c’è un primo elemento di apprendimento ovvero la sensoristica che oggi è incorporata non solo in molte “cose” tecnologiche, ma anche in comunità ibride di professionisti e di utilizzatori che sono in grado di generare feedback immediati e competenti non solo rispetto a come stanno andando le cose, ma a come si potrebbero migliorare agendo quindi in maniera predittiva. Una materia non solo da intelligenza artificiale, ma anche da sensibilità riflessiva, in grado di discriminare tra opzioni possibili, tra futuri che non procedono in senso lineare e incrementale ma che sempre più incontrano sulla loro strada il famoso cigno nero. Oggi il virus, domani chissà, ma non possiamo più permetterci di non cogliere segnali, deboli o meno, in tal senso.

Un secondo interessante apprendimento riguarda il ruolo delle organizzazioni: private e pubbliche, for profit e non. Diciamocelo: l’innovazione tecnologica e sociale è stata a volte (o spesso?) usata come ciliegina su una torta, cioè le routine organizzative, impastata e cotta sempre allo stesso modo. Anzi, per evitare guai, si è preferito subappaltare l’innovazione a soggetti nati per rischiare come le startup tecnologiche facendo pochi sforzi in sede di compartecipazione sia dell’investimento sia di trasferimento della tecnologia prototipata al fine di innovare la propria offerta e anche le proprie modalità di funzionamento. Un comportamento ai limiti del gattopardesco…(continua)


L'itervento è integrale pubblicato sul numero di aprile di VITA, scaricabile gratuitamente qui

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