Cultura

Fine corsa? La crisi del cristianesimo confessionale per Luca Diotallevi

Per il sociologo Luca Diotallevi siamo oggi in presenza di un Cristianesimo a bassa intensità e di «un religioso più visibile e meno rilevante, più autonomo e con minori pretese di rilevanza extra-religiosa. Un religioso che sempre più spesso è nella e della quotidianità». Un universo religioso che muove la globalizzazione e si muove nella globalizzazione e che trasforma le sfere economiche e politiche

di Pietro Piro

È sempre molto difficile stabilire “lo stato di salute” di fenomeni sociali complessi e storicamente radicati nel tessuto sociale. Ancor di più se si tratta del Cristianesimo, una religione planetaria che coinvolge più di due miliardi di persone di cui 530 milioni vivono in Europa, 510 milioni in America Latina, 390 milioni in Africa e forse 300 milioni in Asia.

Pretesa difficilissima perché per valutare una religione occorre stabilire delle ipotesi di ricerca, dei criteri concettuali per poter elaborare modelli di analisi. Lo stato di salute di una religione come il Cristianesimo come si misura? Dal numero dei battezzati? Dalla frequenza ai riti? Dal numero delle persone che esonerano il proprio figlio dall’ora di religione? Dal numero dei nuovi preti? E se poi andiamo ancora più in profondità, com’è possibile valutare la condizione di salute di una intima appartenenza come la fede in Dio?

In Africa tra il 1900 e il 2000 il numero dei cristiani è cresciuto da 10 milioni a più di 360 milioni, dal dieci per cento della popolazione al 46 per cento (tutti i dati utilizzati sono ricavati da Philip Jenkins, I nuovi volti del cristianesimo,Vita e Pensiero, Milano 2008, p. 24). Bastano questi numeri, per quanto impressionanti, per stabilire che il Cristianesimo africano sia in buona salute?

Luca Diotallevi, sociologo della religione dell’Università di Roma Tre, nel suo volume Fine corsa. La crisi del cristianesimo come religione confessionale, EDB, Bologna 2017; prova a suggerire percorsi ermeneutici – molto complessi – per orientarci nel difficile compito di una valutazione del fenomeno cristiano. Per Diotallevi – interessato in particolar modo a dare avvio con questo volume a un ampio dibattito su un ipotesi di ricerca che definiscePost-Confessional Christian Studies – siamo oggi: «in presenza di un religioso più visibile e meno rilevante, più autonomo e con minori pretese di rilevanza extra-religiosa. Un religioso che sempre più spesso è nella e della quotidianità» (pp. 28-29). Un universo religioso che muove la globalizzazione e si muove nella globalizzazione (p. 32) e che trasforma le sfere economiche e politiche.



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In questo contesto di religione a bassa intensità il cristianesimo vede calare la pratica religiosa, l’esclusività dell’identificazione religiosa, la diffusione e l’intensità delle credenze religiose cristiane ortodosse, mentre aumentano le difficoltà nel reperire nuovi membri del clero (pp. 33-34). Per Diotallevi è il Cristianesimo confessionale ad essere in piena crisi. Si tratta di quella forma di cristianesimo in cui le credenze hanno un primato e fungono da base solidissima per una appartenenza pubblica e vincolante il cui compito primario è il disciplinamento sociale (p. 81). Una variante che cercava la sicurezza e la salvezza nell’ordine (p. 185) contribuendo con il suo potente apparato organizzativo alla differenziazione sociale e alla definizione controllata di ambiti di potere dentro i quali poter esercitare il proprio dominio.Una forma del Cristianesimo giunta a un livello di crisi profondissima (p. 191) che spinge a rinunciare a una dose cospicua di rilevanza extra-religiosa per poter recuperare maggiore autonomia (p. 195).

Per Diotallevi: «quella che torna ad espandersi è una religione in prima battuta non confessionale e non cristiana, o almeno di un Cristianesimo non più ecclesiasticizzato o non nuovamente ecclesiale» (p. 197) una religione sempre meno in grado di perturbare o irritare gli altri sistemi sociali come la politica, l’economia, la famiglia, la scienza e dunque, sempre meno in grado di contribuire a definire l’ordine sociale (p. 200).

Di questa “perdita di controllo” secondo Diotallevi l’autorità ecclesiastica non è preoccupata perché soddisfatta o ipnotizzata da una maggiore visibilità mediatica (p. 201). Il clero deve fare necessariamente buon viso a cattiva sorte di fronte al proliferare d’imprenditori religiosi che non attendono più nessuna certificazione ecclesiastica né tollerano alcuna regolazione rituale, dottrinale, disciplinare (pp. 202-203).

Imprenditori che possono attingere a un deposito immenso e asportare a piacimento quello che serve per costruire la propria narrazione senza rischiare condanne o revoche ma che con il loro agire aprono anche la prospettiva su elementi rimossi della /dalla/nella tradizione (p. 209).

Se ci si sposta sul versante italiano della religiosità per Diotallevi si può notare come: «i valori relativi a quattro delle sue dimensioni (credenza, partecipazione, identificazione, conoscenza) hanno proseguito la loro discesa, mentre segnali inversi sono continuati a pervenire nel campo della quinta e meno confessionalmente delimitabile dimensione, quella dell’esperienza» (p. 236). La religione sembra ritornare ad essere fonte ispiratrice della vita in genere e della politica in particolare (p. 244).

Il libro di Diotallevi non vuole dare risposte definitive o chiudere un cerchio che è oggi quantomai aperto e mobile. Più realisticamente, si augura l’avvento di una nuova tensione che permetta di evitare un presunto “rompete le righe” di confusa ispirazione bergogliana, e al contrario, un pessimo ritorno a un clericalismo del potere e del controllo. La sua posizione cerca di suscitare un’inquietudine per un Cristianesimo che vada oltre il gesto eclatante e mediatico e che possa essere capace di “solidità” in un orizzonte di precarietà e confusione che getta spesso il credente nella disperazione.

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