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Nessuno si salva da solo: la cooperazione internazionale è parte della soluzione

"Le implicazioni sul continente africano si potranno far sentire a più livelli: l’azione diretta del virus in termini di perdita di vita umane; il logoramento dei sistemi sanitari; la recessione economica internazionale", scrive il segretario generale aggiunto Action Aid

di Luca De Fraia

La pandemia covid-19 sta colpendo con durezza l’Italia così come altri Paesi in Europa e nella parte più ricca del globo. Stiamo sperimentando sulla nostra pelle l’inadeguatezza della risposta messa in campo, in ragione di un’assenza di una vera e propria preparazione per questo tipo di crisi, ma anche per una incompressibile cecità di fronte a una crisi la cui gravità si stava già dispiegando. Ma è anche il tempo di alzare gli occhi e di valutare l’interezza l’impatto dell’emergenza a livello mondiale, che sempre più chiaramente si mostra con le sue diverse dimensioni sanitaria, sociale ed economica.

L’allarme è risuonato con forza quando, solo pochi giorni addietro, le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per un pacchetto da 2,5 trilioni di dollari a favore dei Paesi in via di sviluppo. La sfida è quella di contenere il rischio di una moltiplicazione ed espansione dell’impatto del virus. La comunità internazionale riuscirà a contenere il danno su scala mondiale solamente con un deciso intervento nelle aree e continenti dove il potenziale di risorse e di strumenti per la risposta al virus è decisamente più basso già in partenza. Le notizie dall’Africa, rilanciate dall’organizzazione mondiale per la salute, parlano di un’accelerazione della diffusione del virus, che ha raggiunto ritmi esponenziali.

In questi giorni si moltiplicano i segnali di una risposta globale. Come si può intendere dalla proposta ripresa dalla Nazioni Unite, e da Unctad in particolare, potranno essere necessari circa un trilione di dollari in nuova liquidità, un trilione in cancellazione del debito nel 2020 e 500 miliardi a dono in particolare per il sostengo alla risposta sanitaria. Da notare che il G20 ha recentemente riaffermato il proprio impegno a impiegare in forme diverse circa 5 trilioni di dollari in liquidità nell’economia globale, dei quali, però, poco si può dire in merito all’impatto positivo sui Paesi in via di sviluppo.

Le implicazioni sul continente africano si potranno far sentire a più livelli: l’azione diretta del virus in termini di perdita di vita umane; il logoramento dei sistemi sanitari; la recessione economica internazionale che colpirà in particolare i Paesi che dipendono dalle esportazioni di materie prime, a partire dal petrolio; la perdita di posti lavoro e il peggioramento dei deficit fiscali. Per aver un segno dell’attuale livello di integrazione fra le regioni, i Paesi africani dipendono per il 90% da farmaci importati; l’Europa copre il 50% di questo fabbisogno. Sul rallentamento dell’economia africana si sono espressi anche i Ministri delle finanze continente, che stimano la possibile perdita di 50 milioni di posti di lavoro solamente nella agricoltura, prevendendo anche gravi contraccolpi in settori di più recente sviluppo, come turismo e trasporti aereo.

Le risorse a dono dovrebbero svolgere un ruolo cruciale per evitare l’avvio di una spirale devastante fatta di prestito e poi debito; una dinamica che in particolare noi italiani non dovremmo faticare a comprendere. Come è stato fatto notare, i 500 miliardi a dono necessari corrispondono a un quarto degli aiuti che sarebbero stati disponibili se i Paesi donatori avessero diligentemente rispettato i propri impegni. Del mosaico di iniziative di questi giorni, può essere quindi utile ripartire dal percorso tracciato dai vertici dell’OECD DAC, ovvero dall’organismo che definisce le norme per l’aiuto pubblico allo sviluppo. Jorge Moreira da Silva e Susanna Moorehead hanno preso carta e penna per pubblicare in modo non rituale le loro considerazioni su quanto gli Stati membri del DAC dovrebbero fare, l’Italia inclusa.

In ordine, la prima accomodazione è un preciso richiamo a confermare e sostenere tutti gli impegni in termini di aiuti internazionali, con una necessaria, maggiore attenzione ai sistemi sanitari. Su questo fronte, i segnali che le organizzazioni di società civile stanno già raccogliendo incominciano a mostrare un quadro non univoco con il serio rischio che le derive nazionaliste e la guerra alle ONG ancora in voga possano alimentare la tentazione di introdurre tagli alla cooperazione internazionale, in particolare a valere sui bilanci per il 2021. Nel caso italiano, che conosciamo meglio, si potrebbe dire che questo è impossibile viste le scarse risorse impegnate in cooperazione internazionale prima della crisi attuale, ovvero lo 0,25% della ricchezza nazionale.

La seconda raccomandazione mette in luce il paradosso di un’immediata corsa alla risposta umanitaria d’emergenza che possa però esaurire l’impegno e le risorse per la fase successiva; si sta rivalutando la necessità di interventi complessivi sui sistemi sanitari, che sono già gravati nei Paesi partner dall’impatto di malnutrizione, malaria e di minacce più gravi come HIV e Ebola. L’ultima raccomandazione ritorna sulla questione di fondo: da questa pandemia ne usciremo tutti insieme e la cooperazione globale è parte della soluzione.

Non mancano cautele sul comportamento dei Paesi donatori, in particolare sulla capacità di mettersi in sintonia con la voce che emerge dai Paesi Partner e quindi rispetto al rischio che gli interventi in risposta a covid-19 possano essere viziati da nuove condizionalità o da un approccio geopolitico, in una competizione internazionale che non conosce tregua. Ma l’appello a rilanciare la cooperazione internazionale anche in questa fase dolorosa deve essere raccolto e sostenuto. Attendiamo a questa prova l’Italia e l’Unione Europa.

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