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Così la Libia ha trasformato un salvataggio in una deportazione

La scorsa settimana la Guardia Costiera Libica ha interrotto un’operazione di salvataggio dell’Ong tedesca Sea Watch, prendendo il comando e riportando i migranti in Libia. Secondo l’organizzazione tedesca si tratta di una grave violazione del diritto marittimo e del diritto internazionale, e potrebbe rappresentare un precedente pericoloso, ecco perché

di Ottavia Spaggiari

Un’operazione di salvataggio iniziata come tante, in acque internazionali, nel bel mezzo del Mediterraneo, ma interrotta bruscamente dall’intervento della guardia costiera libica. Sono diversi gli aspetti preoccupanti rispetto a quello che è successo lo scorso 10 maggio alla nave Sea Watch 2, impegnata in una missione di salvataggio, a 20 miglia dalle coste libiche, proprio nei giorni più caldi della tempesta mediatica che ha rischiato di screditare il lavoro delle Ong impegnate in mare. Preoccupazioni su più livelli, per la sicurezza dei volontari, per una manovra pericolosa fatta dalla guardia costiera che avrebbe messo a rischio l’equipaggio della Sea Watch 2 e per quella dei migranti, costretti a salire a bordo della nave militare come racconta Theresa Leisgang, responsabile comunicazione di Sea Watch che si trovava a bordo dell’imbarcazione dell’organizzazione tedesca. “Siamo stati contattati la mattina molto presto dal Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo di Roma, come sempre accade sono loro a coordinare i soccorsi. Ci hanno detto che a circa 20 miglia dalle coste libiche un’imbarcazione aveva lanciato la richiesta di aiuto, così ci siamo messi in moto per raggiungerli.” Spiega Leisgang. “Sapevamo che eravamo l’unica organizzazione nei paraggi, abbiamo già fatto diverse missioni e siamo sempre in contatto con le altre Ong, ma in quei giorni tutte avevano fatto ritorno al porto per fare rifornimento o cambiare l’equipaggio.”


Mentre si dirigono verso la barca di in difficoltà, il radar mostra l’avvicinamento di un’altra nave, che poi si scoprirà essere la guardia costiera libica. Sea Watch inizia l’operazione di salvataggio, inviando il primo gommone per la distribuzione dei giubbotti di salvataggio. È a questo punto che avviene l’incontro con la nave battente bandiera libica. “È arrivata ad enorme velocità, tagliando la strada della nostra barca, a prua, e dirigendosi verso l’imbarcazione di legno, piena di migranti. Il nostro capitano ha provato più volte a mettersi in contatto con la nave libica, per cercare, come facciamo sempre, di collaborare nell’operazione di soccorsi ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Siamo poi stati informati che sarebbe stata la guardia costiera libica a gestire l’operazione, e non abbiamo avuto altra scelta se non ritirarci.”

Le persone sono state costrette a salire a bordo della nave libica e, invece di essere portate nel porto sicuro più vicino, come richiede la legge, sono state riportate in Libia.”

Molto diversa la versione del portavoce della marina libica Ayoub Qassem, secondo cui Sea Watch avrebbe cercato di ostacolare le operazioni del Guardacoste in acque territoriali libiche. “Non è così,” afferma Leisgang, sottolineando, tra l’altro, che non si trovavano nemmeno in acque territoriali libiche. “La nostra posizione esatta era a 20 miglia nautiche dalla costa, nella cosiddetta fascia contigua (tra le 12 e le 24 miglia n.d.r.), in questa zona, a differenza delle acque territoriali il cui confine termina a 12 miglia nautiche, la Libia può esercitare un controllo doganale, a fini sanitari o sull’immigrazione. In realtà però nessun regolamento è stato infranto, nemmeno quello relativo all’immigrazione, perché le persone stavano chiaramente abbandonando il Paese.” Ad essere stato infranto invece, secondo Sea Watch, è il diritto internazionale. “Le persone sono state costrette a salire a bordo della nave libica e, invece di essere portate nel porto sicuro più vicino, come richiede la legge, sono state riportate in Libia.” Che, secondo molti, di sicuro non ha proprio nulla. “Solo qualche giorno prima avevamo salvato decine di persone fuggite da lì. Abbiamo sentito storie di tortura e violenza inenarrabili. Le donne ci hanno raccontato di essere state stuprate tutti i giorni nei campi.”

Alla fine dell’operazione Sea Watch ha poi ricevuto un’e-mail, in cui venivano informati che le persone erano state condotte a riva sane e salve. Due aggettivi che a Theresa Leisgang fanno scappare un’esclamazione incredula. “Come si può considerare questo Paese un porto sicuro? Sappiamo benissimo che anche l’accesso alle cure mediche in Libia è limitatissimo.”

L’episodio del 10 maggio apre un precedente nella storia dei salvataggi in mare, che come ha scritto Giacomo Zandonini su Repubblica, solleva dubbi concreti sul ruolo sempre più di rilievo ricoperto dalla Guardia Costiera Libica. “Non era mai accaduto niente di simile prima d’ora. Speriamo che continui ad essere un caso isolato.” Continua Leisgang. “Noi comunque continuiamo ad andare avanti. I nostri avvocati vogliono portare il caso in tribunale, quello che è successo è grave, è stata messa in pericolo l’incolumità del nostro equipaggio ed è stato violato il diritto internazionale.”

Foto: Sea Watch

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