Cultura

Elogio della tenerezza

Escono in Italia, da Minimum fax, alcuni scritti inediti di Raymond Carver. Uno scrittore appassionante, attento ai deboli.

di Luca Fiore

C?è una frase negli scritti di santa Teresa d?Avila che, nel preparare questo discorso, mi è sembrata via via sempre più adatta all?occasione, perciò vorrei presentarvi una mia meditazione su di essa. È stata usata come epigrafe per una recente raccolta di poesie di Tess Gallagher, la mia cara amica e compagna che oggi è qui con me, ed è dal contesto di questa epigrafe che prendo la frase. Santa Teresa, questa donna straordinaria vissuta 473 anni fa, ha detto: «Le parole conducono ai fatti. Preparano l?anima, la rendono pronta e la commuovono fino alla tenerezza». Così espresso questo pensiero è limpido e bellissimo. Lo ripeterò un?altra volta perché c?è anche qualcosa di strano, di esotico in un sentimento portato alla nostra attenzione a questa distanza, in un?epoca che è sicuramente meno disponibile a sostenere questo importante collegamento tra ciò che diciamo e ciò che facciamo: «Le parole conducono ai fatti. Preparano l?anima, la rendono pronta e la commuovono fino alla tenerezza». C?è qualcosa di molto misterioso, per non dire – perdonatemi – addirittura mistico in queste parole particolari e nel modo in cui santa Teresa le usa, con tutto il loro peso e la convinzione che ci mette. È vero, ci rendiamo conto che esse sembrano quasi l?eco di un?epoca passata e più riflessiva. In particolare l?uso della parola anima, un termine in cui non ci imbattiamo molto spesso di questi tempi e se non nell?ambito religioso e magari nella sezione di musica ?soul? di un negozio di dischi. Tenerezza – ecco un?altra parola che non sentiamo tanto spesso oggigiorno e specialmente in un?occasione pubblica e gioiosa come questa. Pensateci un attimo: quando è stata l?ultima volta che l?avete usata o l?avete sentita usare? È altrettanto rara quanto l?altra parola, anima. Nel racconto di Cechov Il reparto n. 6 c?è un personaggio di nome Mojsejka, stupendamente descritto, che per quanto ricoverato nel settore dell?ospedale riservato ai malati di mente, ha assunto l?abitudine di praticare una particolare specie di tenerezza. Ecco cosa scrive Cechov: «A Mojsejka piace rendersi utile. Porta l?acqua ai suoi compagni, li copre quando s?addormentano; promette a ciascuno di portargli un copeco o di fargli un berretto nuovo; ed è lui che imbocca con il cucchiaio il suo vicino di sinistra, che è paralizzato». Anche se la parola tenerezza non è usata esplicitamente, ne sentiamo la presenza nei particolari che ci vengono descritti, persino quando Cechov tenta in seguito di negarla in questo commento sul modo di comportarsi di Mojsejka: «Agisce così non per compassione né per qualche considerazione di tipo filantropico, ma per imitazione, inconsapevolmente dominato da Gromov, il suo vicino di destra». Attraverso un?alchimia provocatoria, Cechov combina parole e azioni per farci riflettere sull?origine e sulla natura della tenerezza. Da dove viene? Come azione, commuove ancora il cuore, persino quando è astratta da motivazioni filantropiche? In qualche modo questa immagine di un uomo isolato che compie atti di gentilezza senza aspettarsi niente in cambio e senza neanche rendersene conto, ci rimane davanti come una strana cosa bella a cui siamo chiamati ad assistere. Può persino riflettere sulle nostre vite il suo sguardo interrogativo. Nel Reparto n. 6 c?è anche un?altra scena in cui due persone, un medico disilluso e un arrogante alto funzionario postale, più anziano, si trovano all?improvviso a discutere sull?anima umana. «E così lei non crede nell?immortalità dell?anima», chiede d?un tratto il funzionario postale. «No, egregio Michail Averjanyc; non ci credo e non ho alcun motivo per crederci». «Debbo riconoscere che anch?io ne dubito», ammette Michail Averjanyc. «Eppure ho come la sensazione di non dover mai morire. Oh, a volte penso tra me e me: ?Vecchio relitto, dovresti essere già morto!? Ma poi sento una vocina nell?anima che dice: ?Non dar retta; tu non morirai?». La scena finisce, ma le parole rimangono nell?aria come azioni. Nasce ?una vocina nell?anima? che parla anche a noi. E anche il modo in cui abbiamo forse bandito dalla nostra mente certe idee sulla vita, o sulla morte, cede il colpo e inaspettatamente il passo a una fede, magari di natura fragile ma insistente. Molto tempo dopo che quello che vi ho detto vi sarà passato di mente, tra qualche settimana oppure tra qualche mese, e l?unica sensazione che vi rimarrà sarà quella di aver partecipato a una grande riunione pubblica, quando noterete la fine di un importante periodo della vostra vita e l?inizio di uno nuovo, nell?elaborare i vostri destini personali, provate a ricordare che le parole, quelle giuste, quelle vere, possono avere lo stesso potere delle azioni. E ricordatevi anche quella parola poco usata che è ormai quasi sparita dall?uso, sia in pubblico che in privato: tenerezza. Non potrà farvi male. E quell?altra parola: anima, o chiamatela spirito, se preferite, se vi rende più facile rivendicare quel territorio. Non scordatevi neanche quella. Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. È una preparazione sufficiente. Non c?è bisogno di altre parole. CARVER, SCRITTORE GRATO Padre Antonio Spadaio S.J. è redattore di Civiltà Cattolica, professore incaricato di Introduzione all?esperienza della letteratura, presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, e docente di formazione alla scrittura creativa (Officina Bombacarta) e di lettura consapevole (Laboratorio O? Connor). È autore dell?unica monografia italiana dedicata all?opera carveriana: Carver. Un?acuta sensazione di attesa, Padova, Messaggero, 2001. Raymond Carver scrive, tra l?altro, la storia di un cieco che insegna a ?vedere? a un vedente, storia in cui il tema è il cambiamento del punto di vista. In che senso disagio sociale e handicap interrogano l?ingegno carveriano? In Cattedrale il protagonista, Robert, invita a cena un amico. L?amico è cieco. Sarà proprio il cieco a insegnare a Robert come guardare le cose in modo diverso, forse per quello che sono, nel loro mistero, proprio disegnando a occhi chiusi una cattedrale. L?amico cieco non ha mai visto una cattedrale, e Robert cerca di descrivergliela. La conclusione è uno strano balbettio: Robert non sa descrivere le cose che conosce. È disegnando con il cieco, mano nella mano, che egli riuscirà a ?vedere? e a disegnare una vera cattedrale: «Era una cosa come nessun?altra in vita mia fino a quel momento». Robert commenta: «It?s really something». Finalmente Robert si trova veramente davanti a qualcosa di notevole, di consistente, di realmente sperimentabile, visibile. Si tratta di una ?epifania?. Ecco, credo che una privazione, anche fisica, in Carver può diventare occasione per ?andar oltre? e vedere le cose in modo meno cieco. Incomunicabilità, alcool, malattia e morte. Cosa impedisce a Carver di abbandonarsi alla disperazione? Carver, giunto prematuramente alla fine dei suoi giorni, giunge a dire che la sua vita è stata una pacchia. Si riferiva ovviamente agli ultimi suoi anni. Perché? Perché nella sua vita era giunto qualcosa di imprevisto: una persona, Tess, che si era accostata alla sua esistenza e l?ha aiutato, con la tenerezza, a uscire dalle sabbie mobili. Un sentimento che emerge con forza dalle sue poesie è lo stupore grato nel constatare che la propria vita gli è stata restituita dall?affetto e dalla tenerezza di una persona che gli si è messa accanto. Tra le poesie della prima raccolta, leggiamo, ad esempio, come Carver riconosca: «ho già tanto / per cui essere grato». Anche il dormire e il fare colazione, le situazioni più ordinarie della vita cioè, sono riconosciute come le chiavi di una relazione capace di dare senso all?esistenza. Carver sente profonda gratitudine per il dono di una intimità capace di accompagnare la propria vita. Lo stupore e la gratitudine, che si manifestano nell? ordinario, ?salvano? la sua vita. Quest?esperienza è profondamente significativa anche dal punto di vista teologico. Qualcuno ha detto che Carver era un uomo laicamente in ricerca. Credo che ciò sia assolutamente falso. La poetica carveriana è tutto tranne che una poetica di ricerca, men che meno di una ricerca intellettualistica. Carver aderisce al reale, anche alla sua scabrosità e alla sua mancanza di senso. Sta lì, non si sgancia, anche se vede buio. Resta però aperto a ?vedere? ciò che accade e si dà il caso che spesso la luce, la grazia, inattesa, arriva o si fa intravedere e Carver è pronto con gli occhi aperti per vederla, fissarla e registrarla. La poetica di Carver non è di ricerca, ma di attesa e di visione.


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