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Ecco come funziona la rete informale di soccorso delle ong

Pubblichiamo un estratto del libro "Nawal, l'angelo dei profughi", pubblicato nel 2015, in cui attraverso la biografia di un'attivista per i diritti umani catanese di origini marocchine si vive in primo piano l'importanza di essere pronti a ricevere telefonate di emergenza e a segnalare le coordinate dell'imbarcazione in pericolo all'ente di competenza, la Guardia Costiera. Altro che complici dei trafficanti...

di Redazione

Il 18 maggio 2015 è uscito il libro Nawal, l’angelo dei profughi, scritto dal giornalista Daniele Biella, collaboratore di Vita, a quattro mani con Nawal Soufi, giovane italo-marocchina (oggi 29enne) attivista per i diritti umani che in questi ultimi tre anni ha ricevuto migliaia di chiamate di SOS dal mare, in particolare da profughi siriani in fuga dalla guerra. Il libro è la biografia di Nawal (la cui storia ha fatto il giro del mondo, ha avuto quattro edizioni e vinto i premi letterari Res Magnae 2015 e Premio Cild per Libertà civili 2015. Lei è stata premiata come Cittadina europea dell’anno 2016 dall’Unione Europea per la sua opera di solidarietà e di volontariato: ha tenuto anche un discorso al Parlamento europeo molto deciso sulle responsabilità europee di fronte alle tragedie in mare, l'ultima delle quali, al largo della Libia, mercoledì 3 maggio, ha provocato 19 vittime. Pubblichiamo qui in esclusiva alcuni estratti del libro che trattano direttamente il tema dell’importanza dei volontari (e, da due anni a questa parte, delle organizzazioni non governative che si sono messe in mare con le loro imbarcazioni in cooordinamento con la Guardia Costiera), in un periodo in cui a livello di politica e opinione pubblica si assiste a processi sommari – senza capi d’accusa reali allo stato attuale – verso le ong e in generale chi opera la più immediata azione da fare nel Mare Mediterraneo: salvare vite in pericolo.

[…]Aveva un anno e mezzo quando suo padre, al tramonto, dopo che aveva finito di lavorare vendendo la sua merce in spiaggia, decise di immergerla nell’acqua. La sua bambina ne aveva una paura tremenda, ma era arrivato il momento di farle capire che il mare poteva essere un amico, con cui divertirsi. Con dolcezza le bagnò i piedini, le gambe, infine immerse tutto il corpo della piccola fino al collo. Il sorriso che l’uomo aveva sul volto però sparì all’improvviso, quando sentì, forse per la stanchezza, che la presa su di lei non era salda e quel corpicino gli stava scivolando nell’acqua alta. Furono attimi di terrore, Nawal non riemergeva, e solo grazie all’intervento di due ragazze che nuotavano lì vicino si evitò il peggio: la ripresero, la misero a terra e le fecero buttare fuori tutta l’acqua che aveva bevuto, salvandola. Per il padre, naturalmente, fu uno shock che ancora oggi gli porta i brividi al solo pensiero. Per lei, rimane un legame strano con il mare, una sorta di amore-odio che forse rimarrà per sempre. Imparò a nuotare; il mare fu il suo compagno di tante estati, ma da quando ha a che fare con i naufragi non è più la stessa cosa. Le capita di andare incontro, infatti, a suggestioni macabre: delle buste nere che affiorano dall’acqua le anticipano un corpo senza vita in arrivo – ne ha visti tanti, d’altronde – oppure il pesce che ha davanti al piatto diventa improvvisamente immangiabile, perché la sua mente viaggia e si chiede cosa abbia mangiato il pesce, laggiù sui fondali dove si sono inabissati gommoni ed esseri umani. Sono brutti pensieri, lei tenta di cacciarli, ma ritornano. Sta imparando a conviverci, perché è consapevole che il mare non ha colpe se degli uomini meschini giocano con la speranza di altri uomini, mettendoli in mare su barche fatiscenti al solo scopo di guadagnarci dei soldi. E se altri uomini di potere che potrebbero metterci tutta la loro buona volontà per fermare questa tragedia, invece, non riescono a farlo, affidandosi al buon cuore di chi, come lei, si trova catapultata in mezzo alla storia, tanto da poter finire tra qualche anno sui libri di scuola, perché le vite che sta salvando rilanciando gli sos che le arrivano sono davvero tante. Quante? Almeno 20mila, quasi tutte provenienti dalla Siria. Numeri da brividi che si recuperano dalle registrazioni delle telefonate – lei registra tutto – ma soprattutto dal bene più prezioso che Nawal porta con sé: un quadernetto qualunque che ritrae sulla copertina Violetta, l’immagine della star delle adolescenti, « così a nessuno viene in mente di rubarlo ». Fu un regalo di Marinella, amica che venne un giorno d’estate carica di aiuti per i profughi della stazione di Catania. Ora il quaderno è pieno zeppo di nomi, date, ore della giornata, numeri di telefono dei satellitari Turaya: pagine che trasudano vita e morte, gioie e dolori, segni indelebili del più contundente fenomeno migratorio dopo quello della fine della Seconda guerra mondiale. Il 31 agosto 2014 fu il giorno dei record più tristi: alle 5.30 del mattino la prima chiamata, 800 persone a bordo, comprese famiglie con bambini, con il motore in avaria. Il secondo sos poco dopo, 500 persone stavano imbarcando acqua ma riuscirono anche loro a dare le coordinate. Poi altre 350 persone, seguite da un quarto allarme, anche questo per l’acqua che iniziò a entrare nella barca stipata da 250 profughi. Entro la fine della mattina ne arrivò un quinto, e nel giro di quelle 24 ore Nawal appuntò la cifra disarmante di diciassette imbarcazioni in mare in un solo giorno, 8 delle quali lanciarono un sos direttamente a lei. In una giornata in cui, tra l’altro, corse tutto il giorno tra la stazione di Catania e i dintorni per accogliere e rifocillare i superstiti dei viaggi dei giorni precedenti, incontrò i parenti degli undici componenti della famiglia Suleiman, dispersi durante la strage dell’11 ottobre 2013 – volevano andare in Tribunale, sicuri di avere prove che almeno un figlio fosse vivo ma in prigione a Malta – e ascoltò Ibrahim, superstite di un altro naufragio che aveva bisogno di assistenza per i documenti.



Quello che realizzò Nawal fin dal principio era l’enorme precarietà di tutte quelle vite in balìa del mare: bastava un cambio di vento, un’onda troppo alta o una fiamma di un accendino finita nel posto sbagliato per finire nel triste computo delle persone morte, o, cosa ancora più crudele per i familiari, disperse chissà dove. Ci furono tante segnalazioni che non andarono a buon fine, e il solo pensiero fa incupire Nawal ancor oggi. Come non ricordare quell’imbarcazione in difficoltà, il 26 giugno 2014: erano almeno in 500, e quando la chiamarono per lanciare l’sos stavano tutti bene, così lei, una volta avvertita la Guardia Costiera, pensò che tutto sarebbe andato come doveva. La sera, però, lo shock arrivò con una notizia battuta dalle agenzie: 49 persone rimasero asfissiate nella stiva a causa di un incendio improvviso. Al momento della chiamata a Nawal, erano al largo della Libia e, data la distanza dalla Sicilia, passarono molte ore prima dell’arrivo delle navi di Mare Nostrum: ore in cui si consumò la tragedia. Ogni chiamata ha la sua storia, i suoi protagonisti, e Nawal si rende conto di trovarsi ogni volta al centro di una lotteria beffarda. Perché se va bene, qualche giorno dopo potrà abbracciare il profugo che l’ha chiamata dalla barca in pericolo, ma se va male lei sarà l’ultima persona con cui lui avrà parlato prima di morire. Per questo quando appare un numero che inizia con +88 sul cellulare, identificativo di una chiamata da un satellitare, prima di rispondere fa un sospiro profondo e si prepara, sapendo che il problema fondamentale di lì a poco sarebbe stato il gestire lo stato di panico del suo interlocutore. Ogni volta le mani iniziano a sudare, ma riesce a trovare la forza interiore per dosare bene le parole, urlando se necessario, puntando a trasmettere una serenità di fondo che non sa nemmeno lei dove riesca a trovare. Spesso le persone ripetono come in trance le stesse frasi – « ci sono bambini a bordo », « una donna sta per partorire », « manca l’acqua da giorni » – e non la lasciano parlare. È lì che lei interviene con forza: « Fai parlare me! ». È il momento cruciale, perché nel giro di pochi attimi la persona con la propria vita appesa a un filo si affida completamente alla ragazza, le dà le coordinate e sente riaccendersi la speranza. Ma a volte la linea cade, il telefono si scarica o la posizione segnalata è inesistente. Lei allora cerca di non pensare allo sconforto delle persone sulla barca, manda in fretta e furia un sms chiedendo di rimandare i dati… quando la risposta non arriva e le chiamate successive vanno a vuoto, quello è il momento peggiore. Nawal racconta:

"Se mi rendo conto che qualcuno non ce la farà, quando vedo le salme coperte da un telo nero dopo essere state recuperate, o sento famiglie che mi dicono di aver perso in mare i propri cari, provo rabbia e dolore. Sono emozioni talmente forti che non riesco a gestirle. Spesso mi capita di sbattere la mano da qualche parte, su un muro o su una porta, ma il dolore fisico è inesistente, in quei momenti, perché è il cuore che fa male. Potrebbero essere stati mio padre, mia madre, i miei fratelli. Tante volte ho ricevuto chiamate di parenti in cerca dei dispersi e ho dovuto dire loro che la figlia, il marito, la madre erano morti. È terribile. Una volta un padre mi ha chiamato dalla Siria e mi ha detto: « Sono più forte di te, se mio figlio è morto dimmelo e basta ». Io ho controllato l’elenco dei superstiti e il suo nome non c’era. « Sì, è morto ». Nella casa siriana sono iniziate le urla, altissime, della madre. Poi ho saputo che in quel caso la salma è stata recuperata dal mare, e allora si sono potuti svolgere i funerali di un figlio il cui corpo non era lì, ma in Italia. Ma tante altre volte, nella disgrazia c’è anche chi è meno « fortunato », perché chi non trova il cadavere soffre molto di più; la speranza di ritrovarlo fa vivere in un limbo senza fine. Mi arrivano di continuo e-mail e telefonate dalla Siria, da decine di Paesi esteri, Stati Uniti compresi, dai parenti e dagli amici che hanno perso in mare delle persone care. È davvero pesante a livello psicologico, ci vorrebbe qualcuno che faccia questo lavoro. Così come è pesante fare la parte del boia, quando c’è gente che ancora dopo mesi pretende di trovare i propri figli, chiedendoti di cercarli nelle carceri, nei centri di accoglienza. Fa stare male pensare di essere molto amata dalle famiglie dei vivi, di chi ce l’ha fatta, ma non esserlo assolutamente da parte dei parenti dei morti, dei dispersi. Non c’è via d’uscita da questo dolore.Una volta una madre mi ha chiamato da Aleppo alle due di notte. « Nawal, scusa l’orario, non so che ore sono da te ma ti ho chiamato per un motivo importante, sento che uno dei quattro figli che ho perso nel naufragio è vivo ». Cosa si può rispondere a una madre che la pensa così? Niente, se non darle un anestetico, dicendole che la mattina dopo avresti chiesto, avresti controllato tutti gli elenchi. Allora riesci a calmarla, anche se sai che non durerà molto. C’è una frase che mi sento ripetere spesso da chi è finito in questo girone dantesco: « Avrei preferito vedere morire mio figlio sotto le bombe, difendendo la patria, ma non in mare, la morte in mare è l’anonimato ». Morire anonimi. Non c’è niente di peggio".

[…] La telefonata più strana della sua vita Nawal la ricevette un pomeriggio di luglio del 2014, e questa volta l’interlocutore fu nientemeno che un ufficiale della Guardia Costiera. Nawal l’aveva chiamato qualche ora prima per segnalare le coordinate di un sos che aveva ricevuto da una barca in avaria che era partita dall’Egitto. A bordo, tra l’altro, c’erano Bayan e Hosam, siriani che avevano contattato la ragazza mentre erano trattenuti da giorni nel commissariato di Al Rashid ad Alessandria d’Egitto senza una valida motivazione, tanto che per il loro rilascio si mosse anche Amnesty International. « C’è un’oasi verde in mezzo al deserto », disse l’ufficiale a Nawal. Il significato? I mezzi italiani della Guardia Costiera erano troppo lontani dall’imbarcazione ma un mercantile battente bandiera di Singapore l’aveva raggiunta ed era pronto al trasbordo dei passeggeri. « Bene », rispose lei. « Sì, ma c’è un problema. I siriani si rifiutano di salire a bordo del mercantile », riprese l’uomo della Marina, che terminò la frase in questo modo: « Noi non sappiamo cosa fare, signorina Soufi. Deve trovare una soluzione, solo lei può convincerli ». Nawal rimase esterrefatta. Provò a contattare il Turaya dei due ragazzi, ma risultò spento. L’idea più plausibile che si fece era quella che volessero rifiutare di salire sul mercantile per la paura di venire respinti e finire ancora una volta nel commissariato egiziano, o peggio ancora in mano ai trafficanti libici senza scrupoli. Così, toccò a Nawal trovare una soluzione per cambiare la sorte di 330 persone in mezzo al mare: lei, da Catania, una volontaria che non aveva alcuna specializzazione nella risoluzione – urgente – dei conflitti ma sulle cui spalle era piombata tale pazzesca responsabilità. Naturalmente lei non si tirò indietro: « Dica al mercantile di prendere un megafono e avvicinarlo al telefono facendo uscire la mia voce », propose. Niente da fare, il telefono della nave si trovava all’interno alla cabina di comando, non era un cordless. « Allora faccia ripetere ad alta voce le parole che le dirò ora: sono Nawal, attivista per i diritti umani che si trova a Catania, Bayan e Hosam salite immediatamente a bordo e fate salire anche tutti gli altri, state tranquilli andrà tutto bene ». Parole magiche: nel giro di cinque minuti tutti i 330 profughi si erano decisi a salire sul mercantile. « Grazie davvero, signorina Soufi », la congedò l’uomo della Guardia Costiera. Nawal pensa spesso a questo salvataggio: se un giorno qualcuno mettesse in dubbio l’azione di altruismo incondizionato verso il prossimo della ragazza catanese, lei sarebbe ben lieta di diffondere le registrazioni – peraltro già pubblicate su facebook – e raccontare i retroscena come questo, pronta a confrontarsi con chi avesse il coraggio di dirle che la sua azione verso i profughi è qualcosa di irregolare.

Da "Nawal, l'angelo dei profughi", Edizioni Paoline 2015.

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