Mondo

Timor senza paura. Dopo i disordini, il nuovo Stato

Quando a vincere è l’Onu. Un caso esemplare. Prima la guerra civile, poi l’indipendenza: oggi Timor est è diventata nazione (di Gerolamo Fazzini)

di Redazione

Aveva le sue buone ragioni, Kofi Annan, per essere commosso domenica 19 quando, a mezzanotte, ha dato il via ai festeggiamenti per l?indipendenza di Timor Est. Commosso e soddisfatto: con un paziente lavoro, l?Onu ha accompagnato per mano il piccolo Paese asiatico dalla resistenza popolare alla sospirata indipendenza. Tre anni di amministrazione provvisoria, nel corso dei quali sono stati creati dal nulla gli edifici che ospitano i ministeri, i tribunali, il nuovo esercito, un embrione di burocrazia, e servizi pubblici quali ambulatori e scuole. Sotto gli occhi del segretario generale, la bandiera azzurra delle Nazioni Unite, che da tre anni sventolava sull?ex palazzo del governatore indonesiano a Dili, è stata ammainata da un picchetto d?onore della forza multinazionale di pace e sostituita con quella di Timor Est. Un sogno che diventa realtà. Un sogno che la popolazione ha cullato a lungo, dopo quattro secoli di colonizzazione portoghese e 20 anni di sanguinosa occupazione indonesiana. La soddisfazione di Kofi Annan e delle istituzioni internazionali, per una volta, è legittima. Poveri ma orgogliosi «Senza la comunità internazionale, Timor Est non avrebbe acquisito l?indipendenza. Non l?avremmo potuto ottenere poggiando solamente sulla nostra capacità». Nelle parole di monsignor Carlos Ximenes Felipe Belo, vescovo di Dili, c?è profonda e sincera gratitudine: oltre che alla tenace resistenza della gente e all?impegno del carismatico presule, premio Nobel per la pace 1996, il traguardo dell?indipendenza deve molto alla mobilitazione delle Nazioni Unite. «È stata l?unione della nostra perseveranza e coraggio», scrive ancora Belo, «con la buona volontà delle istituzioni internazionali e coraggiosi uomini e donne del mondo, che ha portato a questo cambiamento. Noi in Timor Est dobbiamo ora guardare lontano per assicurare la pace e una vita felice ai nostri cittadini». Belo ha ragioni da vendere. Guardare lontano senza sedersi sugli allori, riannodare il filo della riconciliazione con gli ex nemici indonesiani, irrobustire le radici della giovane democrazia sono i compiti di Timor e della comunità internazionale. Le fondamenta del 192mo Paese della terra sono ancora fragili. Regna ancora una grande povertà, mancano infrastrutture, il livello di istruzione è bassissimo (i laureati si contano sulle dita di una mano). Per la comunità internazionale gli esami sono tutt?altro che finiti. I precedenti, come detto, sono sin qui incoraggianti. Pur non privo di ombre e segnato da imperdonabili errori, l?intervento internazionale a Timor Est può essere giudicato, nel complesso, positivo. Per la verità, l?Onu ha da farsi perdonare lunghi anni di latitanza. La risoluzione 384 del Consiglio di sicurezza con la quale, pochi giorni dopo l?intervento militare di Giacarta, veniva chiesto all?Indonesia di «ritirare senza indugio le proprie truppe» porta la data del 22 dicembre 1975. Nonostante la concorde convinzione che legittimo fosse il diritto di Timor Est all?autodeterminazione, sarebbe rimasta a lungo lettera morta. L?Onu scende in campo a Timor Est nel 1999, con la missione Unamet, per offrire agli abitanti la possibilità di esprimersi sul futuro politico della loro terra. Al referendum del 30 agosto partecipa il 98,5 per cento della popolazione, e 4 abitanti su 5 scelgono l?indipendenza. Nelle due settimane successive si scatena il finimondo: la missione diplomatica internazionale assiste impotente alla violenza delle milizie filoindonesiane che costringono la popolazione alla fuga verso le montagne. Solo il 20 settembre l?arrivo di un contingente di caschi blu porrà fine ai disordini che lasciano sul campo un migliaio di vittime. È sulle ceneri di questo smacco che l?Onu prepara la sua rivincita. Una buona dose del merito va al responsabile dell?Untaet, l?United Nations Transitional Administration in East Timor, il brasiliano Sergio Vieira de Mello. Qualche mese fa ha dichiarato, lapidario: «La vostra tragedia ci ha costretto a essere dei pionieri. Non avevamo una manuale di istruzioni su come si costruisce una nazione». In meno di tre anni Con uno stanziamento pari a 600 milioni di dollari all?anno, l?Untaet ha gestito qualcosa come 8mila soldati di 24 nazioni, 1.600 poliziotti stranieri, 4.800 dipendenti locali. Se un?appunto va mosso alla strategia Onu, riguarda la sproporzione dei fondi destinati al mantenimento della massiccia presenza militare rispetto all?amministrazione del territorio. Resta il fatto che in meno di tre anni si è realizzato quello che gli esperti chiamano il nation-building, ossia la creazione di uno Stato, con tanto di elezioni per l?Assemblea costituente (30 agosto 2001), nomina del governo provvisorio, elezioni presidenziali del 14 aprile che hanno consacrato Xanana Gusmao. Se una speranza l?avventura dell?ex colonia portoghese consegna alla storia, è che la presa in carico da parte della comunità internazionale di una giovane nazione, disposta a collaborare, può funzionare. Ora il modello Timor Est attende d?essere esportato. Libertà Nella parte orientale dell?omonima isola, a metà fra Indonesia e Australia, Timor Est ha 800mila abitanti, cattolici al 90%. Il periodo più travagliato della sua storia coincide con la fine della colonizzazione portoghese (1975), quando contro l?annessione indonesiana si mobilitano gli indipendentisti. Ne nasce una guerra civile che fa 200mila vittime. L?Onu interviene nel 1999. Oggi Timor Est ha un?economia fragile: un reddito pro capite di un dollaro al giorno e la disoccupazione al 70%.


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