Economia
L’esperienza di Good Finance e la fatica del “condividere”
La piattaforma inglese oltre ad essere interfaccia verso il mercato, si offre come “stanza di compensazione” utile a riallineare i codici comunicativi e le intenzioni all’interno di un ecosistema che vede la presenza di una pluralità di istituzioni spesso disallineate
di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai
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C’è un problema di post verità anche per l’impact finance? La stessa tendenza, sempre più diffusa, ad anteporre premesse di valore, sensazioni, sentito dire, lasciando in secondo piano dati esperienziali e di performance che scaturiscono, in questo caso, da una industry che fin dal suo apparire ha scaldato il dibattito tra fautori e detrattori? Se è così il portale goodfinance recentemente lanciato nel Regno Unito può rappresentare un valido contributo alla soluzione del problema.
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In primo luogo guardando ai promotori: una coalizione ampia ed eterogenea che tiene assieme le tre componenti fondamentali dell’ecosistema di finanza sociale: la domanda di risorse finanziarie rappresentata da charities e imprese sociali, l’offerta – un complesso variegato di fondi pubblici, istituti bancari, investitori informali – e le agenzie che hanno il compito, cruciale, di intermediare, lavorando sulla crescita (scaling) di progettualità come investimenti e adattando gli strumenti finanziari per taglia e modalità di sostegno (mixando grant, finance ed equity).Una sorta di piattaforma che oltre ad essere interfaccia verso il mercato, si offre come “stanza di compensazione” utile a riallineare i codici comunicativi e le intenzioni all’interno di un ecosistema che vede la presenza di una pluralità di istituzioni spesso disallineate.
In secondo luogo il sito non è solo una vetrina di prodotti – comunque importante e in questo caso ben allestita – ma soprattutto un database di progetti suddivisi per settore, territorio, oggetto dell’investimento, ammontare e tipologia delle risorse mobilitate. È questo il miglior antidoto sia per ridurre lo scontro tra fazioni sul piano della concretezza e dell’efficacia delle realizzazioni, sia per alimentare l’ispirazione e per favorire il trasferimento dell’innovazione prodotta apprendendo da esperienze diverse. Infine c’è un’interessante dimensione di capacity building presente in questa esperienza, volta a favorire un utilizzo consapevole ed efficace delle risorse finanziarie attraverso un questionario – semplice ma efficace – che consente di profilare i soggetti potenzialmente interessati a richiedere risorse per finanziare il loro sviluppo.
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Non male davvero. Con poche modifiche potrebbe essere utilizzato anche in Italia in una fase in cui domanda e offerta di finanza crescono e si differenziano, ma ancora faticano a trovare un punto di contatto, se non in alcuni specifici segmenti, come ad esempio le cooperative sociali (di inserimento lavorativo in particolare) o l’ambito della rigenerazione immobiliare per scopi di natura sociale e comunitaria. Si potrebbe fare quindi, a patto di fare la fatica di condividere, quasi come un bene comune, dati e informazioni in una logica ispirata a due macro fattori strettamente collegati: la capacità d’investimento e l’orientamento all’impatto sociale. Investire postula infatti l’assunzione di rischio e l’orientamento imprenditoriale, capace di generare un “ritorno” sia in senso stretto (monetario) sia in senso più ampio cioè in termini di trasformazione sociale,economica e culturale (impatto). ll naturale esito di una riforma normativa che è ispirata, guarda caso, proprio a questi principi guida e che senza l’affermarsi di progetti fra “diversi”, rischia di lasciare la norma giuridica separata da quella sociale.
*Paolo Venturi è direttore di Aiccon e Flaviano Zandonai è segretario di Iris Network